"Una storia quasi soltanto mia" - una recensione in 500 parole

UNA STORIA QUASI SOLTANTO MIA, di Licia Pinelli-Piero Scaramucci, Feltrinelli, 2009.
di Francesco Di Lorenzo 

«Ci siamo conosciuti nel ’52 a scuola di esperanto. Io ero lì per impararlo, Pino, che già lo conosceva, per il diploma perché voleva insegnarlo». Sono parole di Licia, la moglie di Pino Pinelli. Lei pensava che se gli uomini si fossero conosciuti, allora non ci sarebbero state più guerre. E questo era piaciuto molto a Pino che dal primo giorno del corso di esperanto non l’aveva più lasciata. Era stato costretto a interrompere il ‘sodalizio’, la notte tra il 15 e il 16 dicembre del 1969, quando precipitò da una finestra della questura di Milano. Nel frattempo erano nate due bambine, Silvia e Claudia e la famiglia era unita e felice. Il libro scritto nell’81, ad una decina di anni dagli eventi drammatici del dicembre ’69, è un’intervista a Licia che parla si sé ma per parlare del marito, per onorare la memoria e difendere l’immagine di un uomo sincero, anarchico, idealista, che non avrebbe mai fatto male a nessuno, neanche ad una mosca. Le domande fatte dal giornalista Scaramucci sono di una semplicità d’altri tempi: documentate, mai prive di senso, efficaci per il racconto e rispettose della donna che ha davanti. Le risposte di Licia Pinelli sono di una bellezza sconcertante. Sempre piene di senso, di vita, di intelligenza. Il ritratto di una donna forte che non è mai arretrata davanti alle nefandezze che le sono state dette e fatte, ma soprattutto, è stata capace, per amore delle figlie e di se stessa, di superare la più grande ingiustizia subìta: essere stata privata inutilmente della vita di suo marito. Licia è una donna tutta di un pezzo, parla di sé con grande libertà e sincerità entrando anche in particolari che arricchiscono il ritratto di una donna combattiva e risoluta. Dice che ha trascorso i primi dieci anni dalla morte del marito tra denunce e querele, tra interrogatori e dibattimenti, sempre in prima linea per ottenere la giustizia di sapere cosa fosse successo la notte del 16 dicembre ’69 in quella stanza al quarto piano della questura di Milano. Nonostante tutti gli sforzi, però, non ci è riuscita. Nessuno si accontenta, lei prima di tutti, della tesi del malore che avrebbe fatto volare giù Pinelli, men che meno il racconto del suo suicidio. In tutto questo la grande lucidità con cui Licia risponde alla domande, ricostruisce i fatti, scava dentro di sé, rivela un’umanità commovente a cui nessuno ha voluto e saputo rispondere con un atto altrettanto degno. Come ha scritto Scaramucci nell’introduzione al libro, molti di quelli che si trincerarono dietro ad inverosimili calunnie “volutamente o inconsapevolmente allora cooperarono alla strategia della tensione, dal che è inevitabile collocare Giuseppe Pinelli tra le tante vittime innocenti del terrorismo, terrorismo di Stato in questo caso”. 

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