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IL MINISTRO TULLIO DE MAURO (1932-2017)

Antefatto. Tullio De Mauro, proposto da Giuliano Amato, diventa ministro il 25 aprile del 2000. Durerà in carica fino all’11 giugno del 2001. Massimo D’Alema si è appena dimesso da capo del governo, in seguito alla sconfitta del centrosinistra alle elezioni regionali del 16 aprile. Luigi Berlinguer si è giocato tutta la sua popolarità con il concorsone. Il suo partito non l’ha riconfermato.
De Mauro è professore universitario. È un insigne linguista. In campo accademico detiene un grande potere, che gli deriva da uno sterminato curriculum e da un’estrema serietà professionale. Ha all’attivo una serie impressionate di pubblicazioni. Le sue idee sulla scuola sono molto ben definite; come quelle sulla società italiana e sulla lingua che parliamo.
Sembra naturale a tutti che dalla poltrona di ministro possa dare un contributo importante alla scuola italiana. Il suo è un traguardo ampiamente meritato. Nella sua carriera si è sempre interessato della scuola viva, quella di tutti i giorni. Insomma, le persone che si intendono di scuola lo conoscono bene e hanno fiducia in lui. Una parte, però, non tutti.


(dal libro "Ministri della Pubblica Istruzione", Uppress Edizioni - Bologna, 2012)

Tullio De Mauro – Ministro della Pubblica Istruzione:
dal 25 Aprile 2000  all’11 Giugno 2001 – governo: Amato II
La vita. Dunque, un famoso linguista al ministero della Pubblica istruzione. Tullio De Mauro sulla poltrona appena lasciata da Luigi Berlinguer. Nato nel 1932 a Torre Annunziata, in provincia di Napoli, De Mauro è considerato il più importante studioso della lingua italiana.
È docente di Filosofia del Linguaggio presso l’Università di Roma. Ha contribuito alla diffusione e all’affermazione in Italia delle teorie linguistiche legate allo strutturalismo. Ha curato, nel 1967, la traduzione e il commento del 'Corso di linguistica generale' di Ferdinand de Saussure.
Gran parte delle sue opere sono dedicate allo studio della lingua italiana dagli anni dell’unificazione ai giorni nostri (‘Storia linguistica dell’Italia unita’, 1963).
Ha diretto e curato importanti opere lessicografiche tra cui il Grande Dizionario Italiano dell’Uso del 1999.
La sua attività di studioso ha sempre avuto anche un risvolto ideologico e politico. È stato un collaboratore storico ed animatore della rivista "Riforma della scuola". La rivista aveva una diffusione enorme, ed era considerata un punto di riferimento da quasi tutti gli insegnanti di matrice laica.
Tra le sue iniziative c'è anche la creazione del giornale "Due parole", pubblicazione con testi semplificati per ragazzi con difficoltà linguistiche o analfabeti di ritorno. De Mauro ha fatto parte della Commissione per la riforma dei programmi, nonché del gruppo di saggi nominati dal precedente ministro Berlinguer.

Ma il neoministro è anche un uomo colpito negli affetti dalla mafia. Suo fratello, il giornalista Mauro De Mauro, venne rapito mentre tornava a casa, a Catania, una sera di settembre del 1970. Cronista del quotidiano l'Ora di Palermo, stava lavorando, per il regista Francesco Rosi, a una ricostruzione storica della morte di Enrico Mattei. Il suo corpo non è mai stato trovato. Solo 25 anni più tardi i ‘pentiti’ di Cosa nostra hanno raccontato quello che in Sicilia sapevano tutti. E cioè che De Mauro era stato fatto sparire dalla mafia.

APRILE – DICEMBRE 2000
Esordi. Il nuovo ministro oltre che essere uno dei più illustri linguisti italiani, è anche popolare quel tanto che basta. Le sue lezioni all’Università sono tra le più seguite. Sa attirare l’attenzione. È arguto e mette nei suoi discorsi quel pizzico di polemica che impedisce all’uditorio di distrarsi. È proverbiale la sua battaglia contro il burocratese e per il parlare e lo scrivere chiaro.
L’Enel, quando dovette semplificare e rendere leggibile la bolletta che arriva nelle case di tutti gli italiani, si rivolse ad una commissione la lui presieduta. E fu una bella esperienza, ricorda.
La sua capacità affabulatoria lo porta a volte ad esagerare. Ma questa è anche una sua caratteristica. E non se ne può fargli un torto. Spesso è in televisione e sulle questioni della scuola i giornali lo intervistano abbondantemente. Collabora con i maggiori quotidiani nazionali. È stato, negli anni settanta, assessore all’istruzione per la regione Lazio. In quell’occasione scrisse un libretto poi distribuito dal suo partito di riferimento, l’allora Pci. La breve pubblicazione condensava in dieci punti le cose da fare per l’istruzione. La prima, il punto di partenza, era l’assunto che ‘senza alfabeto, niente democrazia’. Che tradotto vuol dire, più parole nuove, più linguaggio, più scuola, più accesso alle informazioni per tutti, perché senza queste cose non ci può essere democrazia. Le altre erano l’estensione dell’obbligo scolastico fino ai 18 anni; la formazione degli insegnanti con relativo aumento dello stipendio e il recupero scolastico degli adulti. Cose che, guarda caso, il suo predecessore ha già iniziato a fare.
In ultimo, non si può non ricordare che è stato uno degli ispiratori, a metà degli anni settanta, delle 'dieci tesi per una linguistica democratica'. Le tesi, elaborate dalla società italiana di linguistica, furono diffuse e portate nelle scuole medie durante quegli anni e contribuirono non poco a svecchiare l’insegnamento delle lingua italiana.

Passaggio di consegne. Le prime parole di elogio per De Mauro sono dell’ex ministro Luigi Berlinguer. Il ‘Barone rosso’ dichiara che è contento per la scelta, perché la riforma della scuola l’hanno fatta insieme. La sua conclusione è che: “La riforma è ormai un patrimonio irreversibile…Tullio è un amico, un gran signore, un uomo di cultura, continuerà il mio lavoro”.

La gestione fallimentare della Pubblica Istruzione in Italia


di Marco Cecchini,

“Il fallimento dell’Università italiana”. È questo il titolo, amaro ma veritiero, di un recente libro
scritto da Simone Colapietra e pubblicato da Cerebro Editore, recensito su Il Giornale del 10
dicembre da Franco Battaglia. L’autore del volume non è un professore né un ministro, ma un
ragazzo con le idee chiare sulla drammatica situazione in cui versa lo stato dell’istruzione in Italia:
ecco come si presenta sul sito TheFrontPage.it: “Sono Simone Colapietra, giovane studente
ventunenne prossimo alla laurea in Economia e commercio”. Il dato anagrafico ci deve portare
a una riflessione, ben messa in evidenza nel titolo dell’articolo di Battaglia: “Se ci vuole uno
studente per spiegare ai ministri il disastro dell’Università”.
L’analisi di Colapietra, chiara e ben documentata, mette in luce i difetti di un sistema che, nel
tentativo di adeguarsi ai modelli anglosassoni, ha subìto nel tempo una serie di modifiche che ne
hanno stravolto completamente la funzione e gli obiettivi. “Il primo passo verso il degrado”
spiega Colapietra “si ebbe con la riforma Berlinguer del 1999 che chiamo ironicamente
riforma-scempio del 3+2, proprio perché introdusse la suddivisione in cicli e il sistema dei
crediti universitari. La finalità della riforma era di apportare novità al mondo accademico e
di avvicinare prima i giovani al mondo professionale”.

MINISTRI - recensione su L’Indice dei Libri del Mese, ottobre 2012 – n° 10

di Gino Candreva




Francesco Di Lorenzo

MINISTRI

PUBBLICA ISTRUZIONE
pp. 316, 15,
Uppress, Bologna 2012

Si può raccontare la storia della scuola parlando dei ministri dell’Istruzione? A questa sfida si è sottoposto Di Lorenzo, insegnante di Udine e collaboratore di vari siti specializzati, che ci accompagna nelle biografie e nelle attività dei vari ministri che hanno occupato la sede ora in viale Trastevere, da Francesco De Sanctis a Francesco Profumo. L’intento dell’autore non è storico, ma piuttosto giornalistico; infatti la narrazione si concentra sugli ultimi sedici anni. L’impressione che ne emerge è di uno sforzo perenne quanto inutile, nel quale ogni ministro tenta inutilmente di imporre la propria riforma inevitabilmente epocale, sempre la prima dopo quella di Gentile. Come diceva De Sanctis, citato nell’introduzione di Enzo Spaltro, “chi parla di scuola in Italia è condannato all’eternità”. In quest’eternità ci conducono le pagine del libro, con uno sguardo disincantato, talvolta cinico, che sottolinea la continuità della politica scolastica da Berlinguer a Profumo. Le grandi riforme della scuola, che avevano segnato il dopoguerra, come l’istituzione della scuola media unificata alla fine del 1962, o i nuovi programmi e la rimodulazione della scuola elementare tra metà anni ottanta e il 1990, furono accompagnate da un intenso dibattito pedagogico; i tentativi di ristrutturare la scuola degli ultimi vent’anni sono stati quasi esclusivamente motivati da ragioni di bilancio, di mercato o di pressioni esterne, in particolare del Vaticano, della Confindustria e delle loro lobby in parlamento. Parallelamente, alle riviste specializzate si sono sostituiti i talk show televisivi, la cui frequentazione ha non di rado fatto risaltare una patetica ignoranza ministeriale della materia. Del resto è nei ministri della Pubblica istruzione che si specchia la visione della società della classe dirigente. Il discorso pubblico nei primi quarant’anni del dopoguerra si concentrava sulle esigenze educative e formative degli studenti e sulle necessità della scuola di fornire un adeguato bagaglio di conoscenze e competenze idoneo ad affrontare un futuro che si immaginava di crescita e di miglioramento costante.

MINISTRI: Come è nata l'idea di questo libro sulla scuola?




1. Scrivere, scrivicchiare, scrivolare.. sulla scuola.

Già proporre un libro sulla scuola forse è un azzardo, perché di libri sulla scuola ce ne sono moltissimi. Però questo, a pensarci, non vuol dire niente. In fondo di un argomento si può dir tutto e il contrario di tutto, e lo spazio per chiunque è vasto, oltre che aperto.
Ma per fare una specie di cronistoria, che sia anche informativa, sulla genesi e sulla proliferazione dei libri sulla scuola, bisogna partire dalla metà degli anni 80.
Usciva allora sul quotidiano ‘il manifesto’, nell’edizione domenicale (quindi, ogni settimana), un articolo di Domenico Starnone che, prendendo a pretesto ciò  che accadeva nella sua classe (la classe in cui insegnava), ironizzava sugli alunni, su se stesso, sui colleghi e sull’ambiente scolastico in generale, insomma parlava in termini nuovi (e in modo diverso) della scuola.
In fondo, lo scopo era mettere in risalto una specie di fallimento generazionale che riguardava gli  insegnanti di sinistra, ritratti come persone un po' frustrate. I ritratti, comunque, erano delineati con ironia e con un sottofondo deciso di malinconia.
Era il 1987 quando uscì il libro che raccoglieva gli articoli di un anno di scuola; il libro si chiamava ‘Ex cattedra’. Ebbe successo e alimentò una serie di altri libri che ne ripetevano le movenze.
Poi, anche Starnone si appassionò e scrisse nuovi libri che si inserivano sulla stessa scia. Alcuni di essi, pur riferendosi alla sua esperienza di insegnante, partivano da una visuale più sociologica, arrivando però sempre e comunque a battere sulle difficoltà del mestiere di insegnare; non mancando di rilevare i ‘forti’cambiamenti in corso nelle nuove generazioni.  
Per estensione, e quasi meccanicamente,  tali libri  producevano l’effetto di sottolineare, se non di ingrandire, le difficoltà in cui versava la scuola in generale.
Per dovere di precisazione (ma lo si sarà capito), stiamo parlando di un filone di libri che non  trattano né di didattica, né di storia della scuola.  Siamo nel campo [minato] del giornalismo che in qualche modo tende verso il letterario. Quello in cui si inserisce anche MINISTRI (almeno queste sono le intenzioni).

Naturalmente in questi 25 anni sono usciti molti libri sulla scuola che appartengono a questo filone,  e sono nati testi interessantissimi. Alcuni hanno ottenuto più successo di altri; altri invece sono stati fondamentali per tutti coloro i quali vivono la scuola dal di dentro. Penso al libro di Sandro Onofri,  ‘Registro di classe’, o a quello di Giuseppe Caliceti, ‘Un scuola da rifare’, o anche all’ultimo, in ordine di tempo, di Girolamo De Michele, ‘La scuola è di tutti’. Tutti libri scritti da insegnanti.   Altri ne sono usciti (sempre ad opera di insegnanti) su esperienze particolari, come ad esempio quello di Carla Melazzini sull’esperienza del progetto Chance, fatto a Napoli.

Poi, vicino o comunicante con questo filone, si possono collocare i libri sulla scuola scritti dai giornalisti.
Questo genere, che è un genere specifico, nella totalità dei casi tratta dello sfascio della scuola ma in un senso diverso. Chi li scrive parte dal fatto che oggi non si insegna più bene, per cui, tutti i ragazzi che escono dalle scuole sono degli asini, e la loro asinità conclamata è imputabile agli insegnanti che non sanno più insegnare. La massima a cui sono votati è questa: “… i professori di una volta erano tutta un’altra cosa, erano cioè severi”.
In pratica, per gli autori, l’ignoranza che avanza nella società è alimentata dalla scuola; la conseguenza è che ci troviamo davanti, sempre di più, giovani senza cervello e senza cognizioni.
Ma, attenzione, la lamentela che i giovani sono senza cervello e che di ‘questo passo dove andremo a finire’, è una lamentela (un ritornello) che esisteva già al tempo dei Greci, della Grecia classica,  diciamo già duemilacinquecento anni fa (più o meno). Anche allora qualcuno si lamentava che le nuove generazioni  perdevano nettamente il confronto con le generazioni precedenti. Questo per dire, che a quel tempo, pur non essendoci la scuola come la conosciamo adesso, tale critica ai giovani era  già presente.
[Quindi, da questo punto di vista, nulla di nuovo sotto il sole].

Per chiudere il discorso, bisogna dire che i libri dei giornalisti sui giovani resi sempre più ignoranti dalla scuola, sono quelli che hanno più successo. Questi libri vendono più copie.
Certo, c’è anche qualche docente che si infila nella corrente e si trova bene. C’è poi da riportare il caso limite di un giornalista che ha voluto strafare, e ha pensato bene di dare la colpa dell’ignoranza delle giovani generazioni a don Lorenzo Milani. Direttamente a lui, proprio. Ha detto che è da lì, dal buonismo di don Milani, che tutti mali della scuola hanno avuto inizio. Secondo lui, è dal gesto di voler aiutare i più deboli, quindi praticamente dalla base dell’insegnamento, che le cose sono precipitate.

[Al sentire un discorso del genere, non rimarrebbe nient'altro, ad una schiera di insegnanti che ha scelto il mestiere sulla traccia delle idee di Don Milani, che andare mestamente a suicidarsi]. 

Estratto dal Capitolo 3


Il Ministro Luigi Berlinguer

Antefatto. I ministri della Pubblica Istruzione nella storia repubblicana italiana, lo abbiamo già ricordato, sono stati sempre e solo democristiani: dal 13 luglio 1946 al 17 gennaio 1995. Eccetto gli otto mesi di Valitutti (PLI), i quattro mesi di Spadolini (PRI) e qualche altro mese, negli anni cinquanta, di un liberale e di un socialdemocratico.

Insomma, sempre e solo politici democristiani o strettamente del centro.
Poi dal 17 gennaio 1995 al 17 maggio 1996, per quasi un anno e mezzo, diventa Ministro Giancarlo Lombardi. È un indipendente. Alcuni insegnanti, intervistati qualche anno dopo, lo ricordano come il miglior Ministro dell’istruzione che ci sia stato fino ad allora. Una spiegazione forse c’è: non aveva un partito alle spalle e quindi non doveva dar conto ad una corrente. E, cosa non secondaria - si intendeva di scuola.
Ma chi era Giancarlo Lombardi?
Un industriale prestato per un po’ alla politica.

Dal capitolo ‘Il ministro Mariastella Gelmini’




Classi differenziali per gli studenti stranieri. Più che classi differenziali, l’espressione che viene usata è quella di ‘classi-ponte’. Ma comunque si scatena da subito la polemica.
La proposta-mozione la fa il leghista Cota, allora deputato al parlamento. La sua idea viene subito  approvata alla Camera e questo diventa un motivo in più per far scattare la reazione. Per essere brevi, si tratta di classi di inserimento: classi frequentate solo dai figli degli immigrati, per farli familiarizzare con la lingua italiana e con la nostra cultura. Una volta pronti, i ragazzini potranno essere accolti nelle classi normali...

Per leggere tutto:

http://collettivoalma.wordpress.com/2012/05/03/al-capitolo-il-ministro-mariastella-gelmini/

MINISTRI PUBBLICA ISTRUZIONE su fuoriregistro


la presentazione del libro


Questo libro presenta ed analizza un filone della unificazione italiana, dal tempo in cui la maggioranza riteneva che l'istruzione guastava la testa alla gente ed andava perciò limitata, come voleva la Chiesa che aveva quasi totalmente il monopolio dell'istruzione in Italia. Fino alla frase di uno dei primi ministri della pubblica istruzione, Guido Baccelli che disse: "il popolo bisogna istruirlo quanto basti, educarlo più che si può" ... Ma l'utilità di un volume come questo, "longitudinale" e dettagliato, sta proprio nello spirito ottimistico di questa narrazione .... Se leggiamo questo libro, oggi nel 2012, ci possiamo rallegrare del molto cammino fatto, ma ci dobbiamo spaventare per la molta strada che ancora ci resta da compiere... 
[Dalla prefazione di Enzo Spaltro].

http://www.didaweb.net/fuoriregistro/leggi.php?a=15669

"Ministri"


Prefazione di Enzo Spaltro

Siamo passati indenni attraverso alle celebrazioni dei primi 150 anni dell’Italia unita e certo questo ci è servito a ricordarci che, oramai siamo tutti italiani: per il bene e per il male. Pure va riconosciuto che un po’ di retorica ci ha preso la mano ed i dettagli storici non sempre hanno celebrato con chiarezza i fatti. D’altronde lo si sa: la storia la fanno i vincitori ed i particolari non graditi dai vincitori vengono messi da parte rispetto al ricordo dei vinti. Fu così per la moneta che nel 1861 dovette far confluire nella nuova lira i valori di oltre 282 monete esistenti in Italia. Fu così per la lingua che scelse un suo dialetto, quello toscano, dicono senese (non certo il fiorentino come si dice di solito) imponendolo come lingua ufficiale dal Piemonte alla Sicilia e per la logica che fu trapiantata dal Regno sardo a quello italiano, che dovette scegliere programmi il più possibile idonei per i diversi Stati che il Regno di Sardegna incorporava. Anche il modo di incorporazione fu “plebiscitario” cioè con un sistema definito popolare perché basato sul voto degli elettori di allora (da ricordare senza donne e solo alfabeti, allora poco più del 20%, ed economicamente rilevanti per censo). Per capire gli sviluppi della scuola italiana nel giro di centocinquant’anni occorre tenere presenti diversi fattori e difficoltà oggi non spiegabili o addirittura ritenute non vere.
Questo libro presenta ed analizza un filone della unificazione italiana, dal tempo in cui la maggioranza riteneva che l’istruzione guastava la testa alla gente ed andava perciò limitata, come voleva la Chiesa che aveva quasi totalmente il monopolio dell’istruzione in Italia. Fino alla frase di uno dei primi ministri della pubblica istruzione, Guido Baccelli che disse: il popolo bisogna istruirlo quanto basti, educarlo più che si può’. Innanzi tutto va considerato come allora la politica ed anche la scuola fossero riservate ai benestanti e non a tutti, perché solo i benestanti avevano la possibilità di esprimere un voto, cui corrispondeva il pagamento dei tributi su cui si reggeva lo Stato che consentiva una carriera politica ad una classe dominante. Questa stessa politica era poi dominata da una logica feudale, che vedeva il primogénito come erede universale, soprattutto terriero, il secondogenito come militare che andava a togliere con la forza le terre ai primogeniti delle altre famiglie ed il terzogenito che abbracciava la carriera religiosa per effettuare mediazioni tra i primi ed i secondi. Delle donne nemmeno l’ombra ed il potere femminile esistente era presente solo a livello informale perché ufficialmente non contava niente.
Ma l’utilità di un volume come questo, ‘longitudinale’ e dettagliato sta proprio nello spirito ottimistico di questa narrazione. Occorre ricordare come il Sud fosse avanzato, forse più del Nord sia economicamente che tecnicamente, come dimostrano l’esistenza del primo tronco di ferrovia nel mondo sulla Napoli-Portici, anche se voluto per un capriccio del re di Napoli, ma pur sempre frutto di un’industria attiva nel Regno più grande d’Italia. Anche la città più popolosa era Napoli che ha mantenuto una popolazione di circa un milione di abitanti durante questo secolo e mezzo di storia unitaria.
In effetti la scuola in Italia fu tutta sotto l’influenza della Chiesa che vedeva di malocchio l’istruzione popolare, considerata contraria alla fede ed all’insegnamento della Chiesa. Il libro di Francesco Di Lorenzo lo mostra molto chiaramente, sia constatando come la maggioranza dei ministri sia stata di derivazione cattolica ed appartenenti a partiti cattolici, sia vedendo lo scarso ammontare delle risorse economiche dedicate alla scuola in Italia, sia dallo scarso tempo dato ai ministri in carica per realizzare i loro programmi. Dal 1861, quando iniziò con il letterato Francesco De Sanctis al 1900 e terminò con il medico Guido Baccelli, i ministri dell’istruzione sono stati 37 e sono rimasti in carica troppo poco tempo e non hanno avuto la possibilità di concordare piani di sviluppo della scuola con le forze politiche dominanti. Il bilancio del 1863 prevedeva per la scuola 15 milioni di lire, a fronte dei 250 milioni per la guerra e dei 391 milioni per le finanze. Si vedano per esempio tutti i provvedimenti per aiutare la scuola nella lotta contro l’analfabetismo, semplice o di ritorno, per fare in modo che la scuola in Italia fosse dedicata soprattutto alla classe dirigente. Si noti quanto ricorda Di Lorenzo come financo in questa disperata lotta contro il 78% di analfabetismo esistente allora in Italia, i risultati furono quasi nulli.
Qualcuno ha fatto notare un fattore sottovalutato per capire lo scarso interesse mostrato dai governi dell’epoca alla scuola e lo scarso bilancio dedicatole, paragonato a quello della guerra. Dopo l’unificazione si sono vissuti anni di guerra. Vi era bisogno di più soldati e di meno idee nuove. Infatti in quegli anni di brigantaggio si svolse in effetti una vera e propria guerra civile nel sud del Paese conquistato dal Regno di Sardegna. Morirono in questa guerra più persone che in tutte le altre guerre per l’indipendenza di quegli anni (1861-1870). L’odio che i soldati piemontesi occupanti trascinarono nei paesi occupati fu grandissimo. Ed anche il sistema fiscale fu insopportabile. È questo un capitolo dell’unificazione italiana, ancora tutto da scrivere. In quei luoghi ed in quei tempi prosperarono così nuove e vecchie fazioni nel sud e poi si svelarono le diverse tendenze repubblicane, monarchiche, clericali, socialiste ecc, che abbisognavano di una scuola specifica per queste diverse tendenze. Si comprende la delusione di De Sanctis, quando disse che chi parla di scuola in Italia è condannato all’eternità’.
Ma questo racconto tangenziale della scuola italiana permette veramente a noi del terzo millennio di renderci conto da quali orrori noi proveniamo. Alla mentalità di allora non interessava che la gente si istruisse. Anzi si pensava che il popolo affamato si preoccupava del pane e per il resto lasciava fare ai politici che provenivano tutti dalla classe dominante. Alla quale interessava l’educazione, cioè la docilità e le buone maniere, imbellettate dal cosiddetto senso civico, più che l’istruzione cioè la conoscenza della realtà dello sfruttamento dei dominati da parte dei dominanti, di solito stranieri. Questo libro ci permette di essere ottimisti. Non ostante questo periodo orribile in cui la nostra scuola si è sviluppata, noi ci siamo portati avanti e qualche risultato lo abbiamo raggiunto. Soprattutto ci permette di non dimenticare le nostre origini. E di bene sperare nel futuro. Noi provenivamo (ed ancor oggi proveniamo) dai tempi in cui tutta l’educazione doveva essere svolta dalla Chiesa e Roma era essenzialmente ecclesiastica. Provenivamo dall’epoca in cui la collocazione a Roma della capitale del nuovo Regno dipendeva dai francesi e tutta la nostra economia progressivamente andava a finire in mani straniere. Provenivamo dall’epoca in cui a malapena si poteva pensare all’alfabetizzazione della popolazione, ma in condizioni così impopolari per cui anche l’istruzione obbligatoria non veniva rispettata. Possiamo definire eccezionali il punto in cui siano arrivati. Ma non dobbiamo dimenticare mai da dove siamo partiti.
Perché poi tra l’Ottocento ed il Novecento cominciarono i preparativi per le guerre, prima di Libia nel 1911 e poi mondiale nel 15/18 ed i suoi 600.000 morti. Furono anni in cui la scuola fu dimenticata e tutti gli sforzi furono rivolti a prepararsi a combattere non sapendo con chi e per chi. E la riforma della scuola vide una filosofia di base centrata sul poco, per cui era meglio che i giovani non imparassero troppo per non “confondersi” le idee. Guido Baccelli e la sua riforma delle scuola italiana vide la sua attenzione concentrata sulla preparazione di una classe dirigente e non della popolazione nella sua globalità. Chi sapeva, obbediva meno e pretendeva di più. Poi cominciò la stagione dei grandi conflitti politici, socialisti, comunisti, cattolici, liberali ecc. Si vide il conflitto tra Benedetto Croce e Giovanni Gentile, che nel 1922 (stesso anno della marcia su Roma) varò la sua riforma che è in parte ancora in vigore, e che ebbe l’appoggio di Mussolini che, per motivi ignoti, la definì la più fascista delle riforme. Anche il nome cambiò: da Pubblica Istruzione ad Educazione Nazionale. Bisognava arrivare ad “erudire il pupo”. Il passo verso il Minculpop (Ministero della Cultura Popolare) fu molto breve. Non a caso uno degli slogan più usati durante gli ultimi anni del fascismo, quelli bellici, dalla guerra di Etiopia e di Spagna sino all’armistizio del 1943, è stato “credere, obbedire, combattere”, naturale conseguenza della scuola italiana tutta, che preferì l’educazione all’istruzione.
Se leggiamo questo libro, oggi nel 2012, ci possiamo rallegrare del molto cammino fatto, ma ci dobbiamo spaventare per la molta strada che ancora ci resta da compiere. Innanzi tutto dobbiamo liberare l’apprendimento dalle distinzioni artefatte, spesso usate come alibi, come quello tra istruzione ed educazione, o quello tra addestramento e formazione, oppure ancora tra cognizione ed emozione. Poi dobbiamo ricordarci che alcune idee oggi non reggono più e si sono trasformate in pregiudizio: come la reciprocità dell’insegnare e dell’imparare. Molte cose che si imparano non si insegnano e viceversa molte cose che si insegnano non si imparano. O come l’altro pregiudizio per cui le lezioni singole valgono più di quelle in gruppo, quando invece si vede che i gruppi consentono spesso ritmi e qualità di apprendimento migliori. Le classi devono essere omogenee e gli insegnanti unici, mentre invece l’esperienza mostra che la diversità, l’eterogeneità e la pluralità di docenza sono stimoli insostituibili all’apprendere.
E poi ancora dobbiamo liberarci delle molte premesse ideologiche ritenute necessarie per secoli e che ora invece appaiono dannose: nella scuola di qualunque tipo non è utile il monopolio di nessuna chiesa. Né maomettana, né marxista, né cattolica, né buddista, eccetera. La storia della scuola italiana lo afferma per voce dei suoi tanti ministri: la libertà è il fattore base di ogni apprendimento. È chiaro che ci vogliono delle regole, che libertà non significa arbitrio, ma la verità spesso è dubbia e porta alla guerra. Per non dire poi del come la guerra porta al fanatismo di una sola verità ed a spese militari dieci volte superiori a quelle scolastiche, come Di Lorenzo mostra chiaramente in questo suo volume. Ricordo quello che ha scritto Andrea Camilleri, “la cultura è sempre frutto di una meditata inclusione, non di una partigiana esclusione”. L’apprendimento viene dal prevalere del sì sul no e quindi include e non esclude il sapere, ed il saper fare. Deriva cioè dalla positiva espressione contenuta nel sì e non dalla negativa repressione contenuta nel no.
Imparare dipende dal saper fronteggiare il mistero, considerando la cultura non come una mancanza, una diversità stigmatica, ma una risorsa carismatica, un più e non un meno. Lo spettacolo di questa relazione della scuola italiana col mistero del conoscere crea dei momenti di grande fascino ed occasione di ripensamento.
Dal 1946, come ricorda Di Lorenzo nei 65 anni di storia repubblicana si sono succeduti 60 Governi e 34 Ministri della Pubblica Istruzione, quasi tutti di appartenenza democristiana. La Chiesa ha così monitorato la scuola italiana. Il primo di questi 34 ministri “monitori” è stato Guido Gonella. L’ultima Mariastella Gelmini. Per cui fa piacere leggere la storia degli altri ministri, Gui, Moro, Malfatti, ecc. Il duello tra pubblico e privato nella scuola, che prosegue tuttora, ha origini lontane e profonde. Che arrivano poi al 1968, l’epoca della prevista, ma non giunta rivoluzione nel sistema scolastico italiano. Anche in quegli anni caldi, nell’autunno caldo del 1969 la scuola rinnegò la priorità dell’apprendere. Il colto era il diverso considerato come minus = stigma e non era la risorsa considerata come plus = carisma. Il credere, obbedire, combattere ritornò a farsi sentire nella scelta di classe o nel prevalere dell’azione sul pensiero. Dopo il ‘68 ed il suo movimento innovativo, la manipolazione riprese il sopravvento e il mito della rivoluzione possibile e mancata produsse l’affossamento di ogni cambiamento. Questo volume rende l’idea di quei tempi e ci fornisce un passaporto per la comprensione della scuola italiana attuale.
Molte cose si trovano ricordate in questo volume. Il ruolo di Franca Falcucci e la sua riforma delle scuole elementari con la presenza di tre insegnanti che furono definiti “i moduli” che avevano fatto sperare, inutilmente, in un viraggio della scuola verso una didattica di gruppo e non solo di coppia, cioè in più insegnanti invece che uno solo. Oltre alla sua proposta e la conseguente discussione sull’insegnamento della religione, che aveva fatto sperare, anche qui inutilmente, in un allentamento del monitoraggio ecclesiastico sulla scuola italiana. Ma erano già in pieno sviluppo i presidii “catto-comunisti” nell’ambito della scuola e dell’apprendimento.
E il loro controllo si fece particolarmente sentire.
Una particolare attenzione Di Lorenzo dedica al breve periodo di Giancarlo Lombardi, l’uomo della Confindustria, che ancor oggi viene considerato uno dei migliori ministri dell’istruzione italiana. Migliore in quanto indipendente, e che quindi, non essendo sostenuto da nessun partito, si limitò a firmare accordi e convenzioni rimaste poi lettera morta. Durò meno di due anni. Poi cominciò l’epoca Berlinguer. Di Lorenzo dedica al Ministro Berlinguer il massimo dell’attenzione. Scrive un racconto dettagliato ed avvincente che somiglia a un copione cinematografico o fa pensare ad una ‘piece’  teatrale. La lunga descrizione viene sintetizzata in partenza con parole tristi e sibilline: “era il 17 maggio del 1996 e le cose cambiarono. Ma in che senso? Nel senso che alla fine riuscì a scontentare tutti. Sia i sostenitori che gli oppositori”. Il suo progetto del controllo totale del campo scolastico andava lentamente verso un suo declino e verso una parcellizzazione regionale della finalità dell’apprendere. Le vicissitudini di questo Ministro vengono descritte, anche nelle sue conseguenze, in modo divertente ed incisivo. Ed il lettore troverà certamente interesse nel curiosare tra gli avvenimenti di questo particolare momento della vita politica italiana
Per completare questa presentazione occorrerebbero maggiori tempo e spazio, ma ciò toglierebbe al lettore l’approccio diretto al testo. Per migliorare l’ingresso del lettore in questo libro, desidero affermare che la sua lettura è decisamente consigliabile a tutti quelli che in Italia si occupano di problemi scolastici. Innanzi tutto ai politici ed ai dirigenti del Ministero dalle molte e cangianti denominazioni. Ed a tutti quelli che hanno partecipato ai cambiamenti a fisarmonica dei MIUR, MURST, con e senza l’aggettivo pubblica connesso all’istruzione. Ed anche a molti studenti perché si rinforzino nell’autostima e nella fiducia in loro stessi. Infatti, leggendo questo libro, si può capire quanto sia ingiusto considerare negativamente gli studenti che si laureano dopo i 28 anni in Italia. Con questa storia alle spalle, che questo libro presenta dettagliatamente, e con il peso del valore legale del titolo, che incombe in ogni esame, discussione di laurea o specializzazione, è forse da considerare un miracolo che gli studenti italiani, non ostante l’influenza del DNA, riescano ancora e comunque a laurearsi o a diplomarsi.

Bologna, 27 gennaio 2012                                                                    Enzo Spaltro