Prefazione di Enzo Spaltro
Siamo passati indenni attraverso alle
celebrazioni dei primi 150 anni dell’Italia unita e certo questo ci è servito a
ricordarci che, oramai siamo tutti italiani: per il bene e per il male. Pure va
riconosciuto che un po’ di retorica ci ha preso la mano ed i dettagli storici
non sempre hanno celebrato con chiarezza i fatti. D’altronde lo si sa: la
storia la fanno i vincitori ed i particolari non graditi dai vincitori vengono
messi da parte rispetto al ricordo dei vinti. Fu così per la moneta che nel
1861 dovette far confluire nella nuova lira i valori di oltre 282 monete
esistenti in Italia. Fu così per la lingua che scelse un suo dialetto, quello
toscano, dicono senese (non certo il fiorentino come si dice di solito) imponendolo
come lingua ufficiale dal Piemonte alla Sicilia e per la logica che fu
trapiantata dal Regno sardo a quello italiano, che dovette scegliere programmi
il più possibile idonei per i diversi Stati che il Regno di Sardegna
incorporava. Anche il modo di incorporazione fu “plebiscitario” cioè con un
sistema definito popolare perché basato sul voto degli elettori di allora (da
ricordare senza donne e solo alfabeti, allora poco più del 20%, ed
economicamente rilevanti per censo). Per capire gli sviluppi della scuola
italiana nel giro di centocinquant’anni occorre tenere presenti diversi fattori
e difficoltà oggi non spiegabili o addirittura ritenute non vere.
Questo libro presenta ed analizza un
filone della unificazione italiana, dal tempo in cui la maggioranza riteneva
che l’istruzione guastava la testa alla gente ed andava perciò limitata, come
voleva la Chiesa che aveva quasi totalmente il monopolio dell’istruzione in
Italia. Fino alla frase di uno dei primi ministri della pubblica istruzione,
Guido Baccelli che disse: ‘il popolo bisogna istruirlo quanto basti, educarlo più
che si può’. Innanzi tutto va considerato come allora la politica ed anche
la scuola fossero riservate ai benestanti e non a tutti, perché solo i
benestanti avevano la possibilità di esprimere un voto, cui corrispondeva il
pagamento dei tributi su cui si reggeva lo Stato che consentiva una carriera
politica ad una classe dominante. Questa stessa politica era poi dominata da
una logica feudale, che vedeva il primogénito come erede universale, soprattutto
terriero, il secondogenito come militare che andava a togliere con la forza le
terre ai primogeniti delle altre famiglie ed il terzogenito che abbracciava la
carriera religiosa per effettuare mediazioni tra i primi ed i secondi. Delle
donne nemmeno l’ombra ed il potere femminile esistente era presente solo a
livello informale perché ufficialmente non contava niente.
Ma l’utilità di un volume come questo, ‘longitudinale’
e dettagliato sta proprio nello spirito ottimistico di questa narrazione.
Occorre ricordare come il Sud fosse avanzato, forse più del Nord sia
economicamente che tecnicamente, come dimostrano l’esistenza del primo tronco
di ferrovia nel mondo sulla Napoli-Portici, anche se voluto per un capriccio
del re di Napoli, ma pur sempre frutto di un’industria attiva nel Regno più
grande d’Italia. Anche la città più popolosa era Napoli che ha mantenuto una
popolazione di circa un milione di abitanti durante questo secolo e mezzo di
storia unitaria.
In effetti la scuola in Italia fu tutta
sotto l’influenza della Chiesa che vedeva di malocchio l’istruzione popolare,
considerata contraria alla fede ed all’insegnamento della Chiesa. Il libro di
Francesco Di Lorenzo lo mostra molto chiaramente, sia constatando come la
maggioranza dei ministri sia stata di derivazione cattolica ed appartenenti a
partiti cattolici, sia vedendo lo scarso ammontare delle risorse economiche
dedicate alla scuola in Italia, sia dallo scarso tempo dato ai ministri in
carica per realizzare i loro programmi. Dal 1861, quando iniziò con il
letterato Francesco De Sanctis al 1900 e terminò con il medico Guido Baccelli,
i ministri dell’istruzione sono stati 37 e sono rimasti in carica troppo poco
tempo e non hanno avuto la possibilità di concordare piani di sviluppo della
scuola con le forze politiche dominanti. Il bilancio del 1863 prevedeva per la
scuola 15 milioni di lire, a fronte dei 250 milioni per la guerra e dei 391
milioni per le finanze. Si vedano per esempio tutti i provvedimenti per aiutare
la scuola nella lotta contro l’analfabetismo, semplice o di ritorno, per fare
in modo che la scuola in Italia fosse dedicata soprattutto alla classe
dirigente. Si noti quanto ricorda Di Lorenzo come financo in questa disperata
lotta contro il 78% di analfabetismo esistente allora in Italia, i risultati
furono quasi nulli.
Qualcuno ha fatto notare un fattore
sottovalutato per capire lo scarso interesse mostrato dai governi dell’epoca
alla scuola e lo scarso bilancio dedicatole, paragonato a quello della guerra.
Dopo l’unificazione si sono vissuti anni di guerra. Vi era bisogno di più
soldati e di meno idee nuove. Infatti in quegli anni di brigantaggio si svolse
in effetti una vera e propria guerra civile nel sud del Paese conquistato dal
Regno di Sardegna. Morirono in questa guerra più persone che in tutte le altre
guerre per l’indipendenza di quegli anni (1861-1870). L’odio che i soldati
piemontesi occupanti trascinarono nei paesi occupati fu grandissimo. Ed anche
il sistema fiscale fu insopportabile. È questo un capitolo dell’unificazione
italiana, ancora tutto da scrivere. In quei luoghi ed in quei tempi
prosperarono così nuove e vecchie fazioni nel sud e poi si svelarono le diverse
tendenze repubblicane, monarchiche, clericali, socialiste ecc, che
abbisognavano di una scuola specifica per queste diverse tendenze. Si comprende
la delusione di De Sanctis, quando disse che ‘chi parla di scuola in Italia è
condannato all’eternità’.
Ma questo racconto tangenziale della
scuola italiana permette veramente a noi del terzo millennio di renderci conto
da quali orrori noi proveniamo. Alla mentalità di allora non interessava che la
gente si istruisse. Anzi si pensava che il popolo affamato si preoccupava del
pane e per il resto lasciava fare ai politici che provenivano tutti dalla
classe dominante. Alla quale interessava l’educazione, cioè la docilità e le
buone maniere, imbellettate dal cosiddetto senso civico, più che l’istruzione
cioè la conoscenza della realtà dello sfruttamento dei dominati da parte dei
dominanti, di solito stranieri. Questo libro ci permette di essere ottimisti.
Non ostante questo periodo orribile in cui la nostra scuola si è sviluppata,
noi ci siamo portati avanti e qualche risultato lo abbiamo raggiunto.
Soprattutto ci permette di non dimenticare le nostre origini. E di bene sperare
nel futuro. Noi provenivamo (ed ancor oggi proveniamo) dai tempi in cui tutta
l’educazione doveva essere svolta dalla Chiesa e Roma era essenzialmente
ecclesiastica. Provenivamo dall’epoca in cui la collocazione a Roma della
capitale del nuovo Regno dipendeva dai francesi e tutta la nostra economia
progressivamente andava a finire in mani straniere. Provenivamo dall’epoca in
cui a malapena si poteva pensare all’alfabetizzazione della popolazione, ma in
condizioni così impopolari per cui anche l’istruzione obbligatoria non veniva
rispettata. Possiamo definire eccezionali il punto in cui siano arrivati. Ma
non dobbiamo dimenticare mai da dove siamo partiti.
Perché poi tra l’Ottocento ed il
Novecento cominciarono i preparativi per le guerre, prima di Libia nel 1911 e
poi mondiale nel 15/18 ed i suoi 600.000 morti. Furono anni in cui la scuola fu
dimenticata e tutti gli sforzi furono rivolti a prepararsi a combattere non
sapendo con chi e per chi. E la riforma della scuola vide una filosofia di base
centrata sul poco, per cui era meglio che i giovani non imparassero troppo per
non “confondersi” le idee. Guido Baccelli e la sua riforma delle scuola
italiana vide la sua attenzione concentrata sulla preparazione di una classe
dirigente e non della popolazione nella sua globalità. Chi sapeva, obbediva
meno e pretendeva di più. Poi cominciò la stagione dei grandi conflitti
politici, socialisti, comunisti, cattolici, liberali ecc. Si vide il conflitto
tra Benedetto Croce e Giovanni Gentile, che nel 1922 (stesso anno della marcia
su Roma) varò la sua riforma che è in parte ancora in vigore, e che ebbe
l’appoggio di Mussolini che, per motivi ignoti, la definì la più fascista delle
riforme. Anche il nome cambiò: da Pubblica Istruzione ad Educazione Nazionale.
Bisognava arrivare ad “erudire il pupo”. Il passo verso il Minculpop (Ministero
della Cultura Popolare) fu molto breve. Non a caso uno degli slogan più usati
durante gli ultimi anni del fascismo, quelli bellici, dalla guerra di Etiopia e
di Spagna sino all’armistizio del 1943, è stato “credere, obbedire,
combattere”, naturale conseguenza della scuola italiana tutta, che preferì
l’educazione all’istruzione.
Se leggiamo questo libro, oggi nel 2012,
ci possiamo rallegrare del molto cammino fatto, ma ci dobbiamo spaventare per
la molta strada che ancora ci resta da compiere. Innanzi tutto dobbiamo
liberare l’apprendimento dalle distinzioni artefatte, spesso usate come alibi,
come quello tra istruzione ed educazione, o quello tra addestramento e
formazione, oppure ancora tra cognizione ed emozione. Poi dobbiamo ricordarci
che alcune idee oggi non reggono più e si sono trasformate in pregiudizio: come
la reciprocità dell’insegnare e dell’imparare. Molte cose che si imparano non
si insegnano e viceversa molte cose che si insegnano non si imparano. O come
l’altro pregiudizio per cui le lezioni singole valgono più di quelle in gruppo,
quando invece si vede che i gruppi consentono spesso ritmi e qualità di
apprendimento migliori. Le classi devono essere omogenee e gli insegnanti
unici, mentre invece l’esperienza mostra che la diversità, l’eterogeneità e la
pluralità di docenza sono stimoli insostituibili all’apprendere.
E poi ancora dobbiamo liberarci delle
molte premesse ideologiche ritenute necessarie per secoli e che ora invece
appaiono dannose: nella scuola di qualunque tipo non è utile il monopolio di
nessuna chiesa. Né maomettana, né marxista, né cattolica, né buddista,
eccetera. La storia della scuola italiana lo afferma per voce dei suoi tanti
ministri: la libertà è il fattore base di ogni apprendimento. È chiaro che ci
vogliono delle regole, che libertà non significa arbitrio, ma la verità spesso
è dubbia e porta alla guerra. Per non dire poi del come la guerra porta al
fanatismo di una sola verità ed a spese militari dieci volte superiori a quelle
scolastiche, come Di Lorenzo mostra chiaramente in questo suo volume. Ricordo
quello che ha scritto Andrea Camilleri, “la cultura è sempre frutto di una
meditata inclusione, non di una partigiana esclusione”. L’apprendimento viene
dal prevalere del sì sul no e quindi include e non esclude il sapere, ed il
saper fare. Deriva cioè dalla positiva espressione contenuta nel sì e non dalla
negativa repressione contenuta nel no.
Imparare dipende dal saper fronteggiare
il mistero, considerando la cultura non come una mancanza, una diversità
stigmatica, ma una risorsa carismatica, un più e non un meno. Lo spettacolo di
questa relazione della scuola italiana col mistero del conoscere crea dei
momenti di grande fascino ed occasione di ripensamento.
Dal 1946, come ricorda Di Lorenzo nei 65
anni di storia repubblicana si sono succeduti 60 Governi e 34 Ministri della
Pubblica Istruzione, quasi tutti di appartenenza democristiana. La Chiesa ha
così monitorato la scuola italiana. Il primo di questi 34 ministri “monitori” è
stato Guido Gonella. L’ultima Mariastella Gelmini. Per cui fa piacere leggere
la storia degli altri ministri, Gui, Moro, Malfatti, ecc. Il duello tra pubblico
e privato nella scuola, che prosegue tuttora, ha origini lontane e profonde.
Che arrivano poi al 1968, l’epoca della prevista, ma non giunta rivoluzione nel
sistema scolastico italiano. Anche in quegli anni caldi, nell’autunno caldo del
1969 la scuola rinnegò la priorità dell’apprendere. Il colto era il diverso
considerato come minus = stigma e non era la risorsa considerata come plus =
carisma. Il credere, obbedire, combattere ritornò a farsi sentire nella scelta
di classe o nel prevalere dell’azione sul pensiero. Dopo il ‘68 ed il suo
movimento innovativo, la manipolazione riprese il sopravvento e il mito della
rivoluzione possibile e mancata produsse l’affossamento di ogni cambiamento.
Questo volume rende l’idea di quei tempi e ci fornisce un passaporto per la
comprensione della scuola italiana attuale.
Molte cose si trovano ricordate in questo
volume. Il ruolo di Franca Falcucci e la sua riforma delle scuole elementari
con la presenza di tre insegnanti che furono definiti “i moduli” che avevano fatto
sperare, inutilmente, in un viraggio della scuola verso una didattica di gruppo
e non solo di coppia, cioè in più insegnanti invece che uno solo. Oltre alla
sua proposta e la conseguente discussione sull’insegnamento della religione,
che aveva fatto sperare, anche qui inutilmente, in un allentamento del
monitoraggio ecclesiastico sulla scuola italiana. Ma erano già in pieno
sviluppo i presidii “catto-comunisti” nell’ambito della scuola e
dell’apprendimento.
E il loro controllo si fece
particolarmente sentire.
Una particolare attenzione Di Lorenzo
dedica al breve periodo di Giancarlo Lombardi, l’uomo della Confindustria, che
ancor oggi viene considerato uno dei migliori ministri dell’istruzione
italiana. Migliore in quanto indipendente, e che quindi, non essendo sostenuto
da nessun partito, si limitò a firmare accordi e convenzioni rimaste poi
lettera morta. Durò meno di due anni. Poi cominciò l’epoca Berlinguer. Di
Lorenzo dedica al Ministro Berlinguer il massimo dell’attenzione. Scrive un
racconto dettagliato ed avvincente che somiglia a un copione cinematografico o
fa pensare ad una ‘piece’ teatrale. La
lunga descrizione viene sintetizzata in partenza con parole tristi e sibilline:
“era il 17 maggio del 1996 e le cose cambiarono. Ma in che senso? Nel senso che
alla fine riuscì a scontentare tutti. Sia i sostenitori che gli oppositori”. Il
suo progetto del controllo totale del campo scolastico andava lentamente verso
un suo declino e verso una parcellizzazione regionale della finalità
dell’apprendere. Le vicissitudini di questo Ministro vengono descritte, anche
nelle sue conseguenze, in modo divertente ed incisivo. Ed il lettore troverà
certamente interesse nel curiosare tra gli avvenimenti di questo particolare
momento della vita politica italiana
Per completare questa presentazione
occorrerebbero maggiori tempo e spazio, ma ciò toglierebbe al lettore
l’approccio diretto al testo. Per migliorare l’ingresso del lettore in questo
libro, desidero affermare che la sua lettura è decisamente consigliabile a tutti
quelli che in Italia si occupano di problemi scolastici. Innanzi tutto ai
politici ed ai dirigenti del Ministero dalle molte e cangianti denominazioni.
Ed a tutti quelli che hanno partecipato ai cambiamenti a fisarmonica dei MIUR,
MURST, con e senza l’aggettivo pubblica connesso all’istruzione. Ed anche a
molti studenti perché si rinforzino nell’autostima e nella fiducia in loro
stessi. Infatti, leggendo questo libro, si può capire quanto sia ingiusto
considerare negativamente gli studenti che si laureano dopo i 28 anni in
Italia. Con questa storia alle spalle, che questo libro presenta
dettagliatamente, e con il peso del valore legale del titolo, che incombe in
ogni esame, discussione di laurea o specializzazione, è forse da considerare un
miracolo che gli studenti italiani, non ostante l’influenza del DNA, riescano
ancora e comunque a laurearsi o a diplomarsi.
Bologna,
27 gennaio 2012 Enzo Spaltro
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