di Marco Cecchini,
“Il fallimento
dell’Università italiana”. È questo il titolo, amaro ma veritiero, di un
recente libro
scritto da Simone Colapietra e pubblicato da Cerebro Editore,
recensito su Il Giornale del 10
dicembre da Franco Battaglia. L’autore del
volume non è un professore né un ministro, ma un
ragazzo con le idee chiare
sulla drammatica situazione in cui versa lo stato dell’istruzione in
Italia:
ecco come si presenta sul sito TheFrontPage.it: “Sono Simone
Colapietra, giovane studente
ventunenne prossimo alla laurea in Economia e
commercio”. Il dato anagrafico ci deve portare
a una riflessione, ben messa in
evidenza nel titolo dell’articolo di Battaglia: “Se ci vuole uno
studente per
spiegare ai ministri il disastro dell’Università”.
L’analisi di
Colapietra, chiara e ben documentata, mette in luce i difetti di un sistema
che, nel
tentativo di adeguarsi ai modelli anglosassoni, ha subìto nel tempo
una serie di modifiche che ne
hanno stravolto completamente la funzione e gli
obiettivi. “Il primo passo verso il degrado”
spiega Colapietra “si ebbe con la
riforma Berlinguer del 1999 che chiamo ironicamente
riforma-scempio del 3+2,
proprio perché introdusse la suddivisione in cicli e il sistema dei
crediti
universitari. La finalità della riforma era di apportare novità al mondo
accademico e
di avvicinare prima i giovani al mondo professionale”.
Tale finalità
si è rivelata però completamente disattesa, in quanto la parte relativa alla
così detta
laurea breve, quella di tre anni, non è sufficiente per garantire
un’adeguata formazione allo
studente, mentre il successivo biennio della
specializzazione nella maggior parte dei casi si riduce
a “inutili ripetizioni
di materie studiate alla triennale”; per farla breve, la laurea quadriennale
di
un tempo, seppur presentando un numero minore di esami, garantiva una
preparazione
più completa, senza contare l’esercizio fondamentale della
scrittura della tesi di laurea che
familiarizzava il laureando con le tecniche
di base necessarie per affrontare una pubblicazione.
L’accusa
portata al vecchio sistema di causare un eccessivo numero di studenti fuori
corso non è
stata assolutamente risolta dalla riforma 3+2. La soluzione più
immediata per eliminare il problema
sarebbe quella di istituire una sessione
unica di esame, da sostenere alla fine di ogni corso, al
posto delle sessioni
multiple tuttora vigenti. In questo modo, però, Battaglia fa notare che
“I
Sessantottini presidi e rettori mai l’accetteranno: significherebbe, sì,
pochissimi fuori-corso
(oggi va fuori-corso il 90% degli studenti), ma anche
pochissimi laureati con lode (oggi il voto
medio è – documenta Simone –
108/110)”.
L’analisi di
Colapietra si sofferma anche sul drammatico rapporto tra preparazione
universitaria e
mondo del lavoro, affermando come “le università siano complici
della disoccupazione in Italia
e come il laureato triennale sia una figura
dequalificata poiché svolge mansioni che vent’anni
fa spettavano a persone con
la licenza media”. “Oggi l’università del 3+2” continua l’autore
“è stata
asservita a logiche aziendalistiche sia all’interno, nella gestione degli
atenei, sia
all’esterno, cioè come titoli di studio forniti. I percorsi di
studio sono stati spogliati della parte
culturale e tutto si è ridotto ad una
mera conoscenza spendibile subito in ambito professionale
(almeno
apparentemente). Quindi oltre ad aver ammazzato la cultura (primo
colossale
fallimento) la riforma-scempio del 3+2 ha avuto effetti contrari:
abbiamo quintali di laureati
con un futuro buio e destinati alla
disoccupazione, e spesso le aziende si lamentano per la loro
impreparazione
(secondo mastodontico fallimento)”.
A conferma
delle riflessioni di Colapietra, un’altra pubblicazione riguardante l’attività
dei
rappresentanti di governo negli ultimi anni completa il quadro della
situazione: “Ministri –
pubblica istruzione”, di Francesco Di Lorenzo, Uppress,
Bologna 2012. Il libro è stato recensito
da Gino
Candreva, dottorando all’Università di Roma 2, sul numero di novembre
dell’Indice dei
libri del mese nella preziosa rubrica in allegato L’indice
della scuola. L’autore, un insegnante di
Udine, attraverso l’analisi delle
biografie e delle attività dei vari ministri, da Francesco De Sanctis
a
Francesco Profumo, rileva con grande lucidità le difficoltà di una scuola
italiana che cerca di
resistere di fronte ai duri colpi che da vent’anni a
questa parte le sono stati inferti a forza di riforme
scollegate e poco
lungimiranti. I dati sottolineano “la continuità della politica scolastica
da
Berlinguer a Profumo”, rivelando come l’aspetto fondamentale della
formazione culturale sia stato
svalutato nei confronti di considerazioni di
carattere politico ed economico.
“Del resto”
afferma Candreva “è nei ministri della Pubblica istruzione che si specchia la
visione
della società della classe dirigente”. Con una svolta rispetto ai primi
quarant’anni della Repubblica
italiana, in cui si era cercato di fornire agli
studenti un adeguato bagaglio formativo per affrontare
il mondo del lavoro con
competenza e professionalità, negli ultimi anni “si è inaridita la visione
di
una società più democratica e solidale per lasciare posto all’ideologia della
riduzione
delle opportunità e, di conseguenza, a una più feroce concorrenza;
tuttavia i protagonisti
attivi, dagli insegnanti ai dirigenti ai genitori agli
impiegati, hanno continuato a credere a
una missione che i vari ministri
tentavano di snaturare, e hanno continuato a collaborare
considerando loro
compito istituzionale la formazione di cittadini attivi e consapevoli:
la
scuola, nelle sue componenti, si dimostra inequivocabilmente più avanti di
chi la governa”.
Vengono portati
come esempi la tuttora irrisolta questione degli stipendi degli insegnanti, o
il caso
drammaticamente attuale degli episodi di bullismo, in cui è mancata una
vera azione per sostenere
“le buone pratiche di integrazione dei più deboli
consolidate e già adottate da migliaia di
scuole italiane”.
In entrambi i volumi
vengono raggiunte dunque le stesse conclusioni: gli ultimi vent’anni
della
politica italiana si sono dimostrati deleteri per la gestione della
pubblica istruzione, che ha cercato
di subordinare a logiche di stampo
economico e aziendalistico la vera funzione della didattica, ma
senza riuscire
nell’obiettivo, se si considera il basso voto che il mondo delle imprese dà al
livello
di preparazione dei laureati. È giunta l’ora di cambiare le cose, di
ridare alla scuola italiana il
posto che le spetta di diritto, di investire
nuovamente nella cultura e nella formazione, perché è
solo in questo modo,
ovvero partendo dalle basi, che sarà possibile ricostituire una dignità a
livello
politico e sociale che chi ci ha governato fino ad ora sembra aver
voluto dimenticare e, soprattutto,
farci dimenticare.
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