Il ‘Novecento’: un racconto - Appunti sparsi sul ‘900 letterario e non solo

Introduzione

Il Novecento italiano (con tutta probabilità) ha il sapore di una caramella, il colore di un film e la sostanza di un libro. Potrebbero essere queste, in sintesi, le tre immagini-simbolo del secolo ormai trascorso: la caramella per il particolare sapore, il film per un unico possibile colore e il libro per la sostanza, cioè, per le idee e le convinzioni.
La prima immagine-simbolo è una caramella che si chiama “900” ed ha un sapore nuovo e fresco, menta e liquirizia insieme. È la novità di una nota marca di dolciumi che avrà, nel corso del secolo, un notevole successo commerciale.
La seconda immagine-simbolo viene direttamente dal film “Novecento” di Bernardo Bertolucci. È una fantasia un po’ più complessa e parte dalla trama: racconta la storia di due uomini che nascono nello stesso giorno in una grande azienda agricola dell’Emilia Romagna, ma che appartengono a due famiglie con differenti coefficienti sociali. Alfredo è il figlio del ricco proprietario, Olmo, invece, figlio senza padre di Rosina, una contadina a servizio nell’azienda stessa. La loro vicenda si intreccia (sono nati nel 1901) con le vicende della grande guerra prima, del fascismo e della lotta di liberazione poi, in una sintesi che li vede amici e rivali in alcuni frangenti, ma sempre uniti e comunque insieme.
Il colore del novecento potrebbe essere quello che si evince dal film. Per alcuni il colore sembra sia il rosso (che effettivamente domina nelle scene e che viene consegnato anche come accusa). Ma a noi interessa il colore inteso in senso connotativo, la cifra di un insieme che è il nucleo della nostra storia, una storia che parte nelle prima metà del secolo e si sviluppa, per alcuni versi e in  special modo  per la letteratura, nell’altra parte del secolo, la seconda.
Infine, la terza immagine è sintetizzata nel libro di Vittorio Foa, “Questo novecento”. Il libro ci parla della difficoltà che la nostra nazione incontra nel togliersi di dosso la cappa di un marcato conservatorismo strutturale e continua con i vari tentativi, alcuni abortiti, alcuni andati a buon fine, di prospettare un’Italia dagli alti valori morali e politici. Tanto per intendersi, il sottotitolo del libro parla di ‘passione civile’ e di ‘politica come responsabilità’. Il tutto descritto da una figura come Vittorio Foa, esempio di moralità assoluta e dedizione alla causa tutta protesa all’affermazione di una Italia migliore. Una figura, quella di Foa, che forse non ha eguali o se ne ha, ne ha pochi. Un grande esempio di uomo.
Sintetizzando: potrebbe essere questa la sostanza del novecento?  Proviamo a scoprirlo.


1.
Si parte con qualche anno di anticipo. La data è nota: 1861, è l’inizio di una nazione. L’anno è questo, che lo vogliamo o no, ed è un riferimento (almeno generale) che bisogna dare, che è necessario fare. Da qui (o da lì, a seconda dei punti di vista) bisogna partire.  
Quando, passati 50 anni, nel 1911, Giovanni Pascoli nel suo discorso “La grande proletaria si è mossa”, elencava tutto quello che in quegli accidentati anni si era fatto, malgrado tutto e malgrado l’handicap delle grandi difficoltà iniziali, il discorso era tutto incentrato sull’enfasi e poco e niente sulla realtà vera dei fatti. Ma, enfasi o no, quel poco che si era fatto in pratica era già molto. Date e viste le condizioni di partenza.
Nello specifico, il discorso di Pascoli fatto a Barga  è catalogabile nella sezione ‘interventismo- nazionalismo democratico’ di cui parla Vittorio Foa, e che dopo un po’ di anni perderà tutti i suoi connotati democratici per assestarsi su posizioni opposte, quasi mai equilibrate. Intanto il discorso di Pascoli ebbe la missione di incitare gli italiani a credere nella guerra in Libia, una catastrofe immensa, preludio ad un disastro ancora più grande, quello della prima guerra mondiale. Naturalmente la buona fede di Pascoli non è in discussione, come la sua mancanza di visione prospettica, neanche emendata dal fatto che avrebbe potuto correggersi con delle scuse che non potè fare perché morì quasi subito, nel 1912.
Comunque i dati relativi all’analfabetismo sono lì a inchiodarci alle nostre e altrui  responsabilità e sono questi:
tra il 75/78% degli italiani nel 1861 era analfabeta;   
– nel 1911, 50 anni dopo, la percentuale era scesa al 38%.

Qualcosa indubbiamente si era fatto nella direzione giusta, nonostante gli scarsi mezzi e i finanziamenti che sfioravano l’irrisorio. Si era tentato in tutti i modi anche di fare gli italiani che non ne avevano coscienza, che erano distanti non solo geograficamente dal sentire comune. Ci avevano provato dando il loro prezioso apporto gli scrittori di letteratura popolare, De Amicis con “Cuore”, Collodi con “Pinocchio”, che indubbiamente avranno pure i loro detrattori (e nel contempo anche i sostenitori), ma il tentativo di unire su basi morali (in alcuni casi troppo moralistiche), lo hanno pur fatto. 
Accanto alla letteratura popolare, nel verso di una emancipazione in generale sostenuta, c’è da registrare l’aumento, seppur di poco, della produzione agricola. Il PIL aumenta al ritmo del 2,1 all’anno, nascono le prime e grandi imprese industriali nazionali: Pirelli, Marzotto, Ansaldo, Fiat. Intanto in quegli stessi anni, tra la fine del secolo e la prima guerra mondiale, emigrano, vanno via dall’Italia a cercar fortuna altrove, ben 10 milioni di italiani. Tra di loro la maggioranza sono contadini e meridionali, ma non solo.
Insomma, quando finisce l’epopea risorgimentale e con il raggiungimento del risultato dell’unità, fino alla fine del secolo, ma diciamo anche fino alla prima guerra mondiale, nel mondo si parlò dell’Italia, ma solo ed esclusivamente attraverso il ‘melodramma’. In primo piano c’era il teatro alla Scala di Milano considerato il tempio della lirica. E poi Verdi e Puccini, e ancora i librettisti, o scrittori di versi, come Boito, Giacosa, Praga.
Ormai i versi, siano essi scritti per la musica o solo per essere letti, vengono filtrati attraverso gli insegnamenti dell’avanguardia poetica francese, si tratta di Baudelaire, e di Verlaine, Rimbaud, Mallarmè. Arriviamo, a piccoli passi, ad adeguarci al moderno che intanto si era fatto avanti, e che noi italiani cominciamo a cogliere nei suoi vari aspetti. Naturalmente, è stato il melodramma che durante tutto l’ottocento ha rappresentato il tramite efficace e irrinunciabile dell’incontro della cultura italiana con altre culture europee: il nostro filo rosso, l’ancora di salvezza, il legame col mondo.
Contemporaneamente lo svecchiamento della cultura portava con sé, inevitabilmente, anche un cambiamento della mentalità con cui si affrontavano le cose, e così alcune esplicite richieste di entrare con disinvoltura nei meccanismi della nascente industria culturale, furono da alcuni considerate scandalose (Gozzano) perché uscivano fuori dagli schemi soliti. Altri, invece, (D’Annunzio) accettarono di entrarci senza farsi  tanti problemi.

Appunti:

– Furono 50 milioni gli uomini impegnati nella 1° guerra mondiale.
La nevrosi da guerra: che cos’è? Di essa si parlò nel V° congresso di Psicoanalisi che si tenne nel 1918 a Budapest. Si può affermare che la guerra portò morti, feriti e disturbati.
– (La stima del numero totale di vittime della prima guerra mondiale non è determinabile con certezza e varia molto: le cifre più accettate parlano di un totale, tra militari e civili, compreso tra 15 milioni e più di 17 milioni di morti. Il totale delle perdite causate dal conflitto si può stimare in più di 37 milioni, contando più di 16 milioni di morti e più di 20 milioni di feriti e mutilati, sia militari che civili, cifra che fa della "Grande Guerra" uno dei più sanguinosi conflitti della storia umana).
Clemente Rebora fu una delle vittime di tale nevrosi (lo scoppio ossessivo delle granate nelle orecchie). La sua storia in breve: nel 1913 pubblica i “Frammenti lirici” con le edizioni La Voce di Prezzolini; nel 1915 viene richiamato alle armi, subisce sul Podgora un forte trauma cranico a causa di un’esplosione, lo shock conseguente con vari ricoveri tra il 1916 e il 1919 lo porterà  ad essere riformato; l’esperienza – raccontata in “Poesie Sparse” è decisiva. Tornato a casa, il poeta non è più lo stesso: crisi nervose, depressioni, gli viene diagnosticata una ‘nevrosi da trauma’; nel 1922 pubblica il suo secondo libro di versi, i “Canti anonimi”; nel 1928 ebbe una crisi religiosa che lo porterà dopo qualche anno ad essere ordinato sacerdote; dopo la conversione pubblica altri libri di poesie. Muore nel 1957.



2.
Il Novecento inizia con l’introduzione di alcune novità, frase banale quanto si vuole ma vera. Si tratta di novità sostanziali, novità che porteranno cambiamenti epocali, finalmente.
Come sempre, anche in questo caso, ci sarà chi capirà il momento e chi no, chi penserà in grande e chi in piccolo, e non sempre la scelta di stare nell’uno o nell’altro campo avverrà sulla base di idee ben precise. A volte agirà l’istinto, a volte il bisogno, a volte semplicemente il caso.
Una di queste novità, all’inizio dell’avventura novecentesca, è la compravendita dei diritti di opere letterarie per il grande schermo. Giovanni Verga e Guido Gozzano (che hanno più di quarant’anni di differenza), ai quali verrà chiesto per prima di lasciare che le immagini entrino nella letteratura, contaminandola, lo considerano degradante, o comunque non opportuno. Insomma, non sono attrezzati ancora per decidere; sono titubanti, presi dai dubbi in tutti e due i sensi, sia per il sì che per il no, ma alla fine rifiutano.
Gabriele D’Annunzio, invece, senza pensarci troppo accettò subito di aprirsi e di andare incontro al nuovo. Lo fece per soldi? Forse, ma non solo. Intanto il vate si accredita l’intuito di aver capito per primo cosa sarebbe avvenuto nel prosieguo del secolo. Sicuramente l’aveva capito, ed era stupido resistere, tanto più con armi spuntate, quasi inservibili.
Ma ormai aprirsi al nuovo era comunque un dovere, tanto più che il tempo lo si era perso durante alcune fasi dell’ottocento, e c’era bisogno in qualche modo di recuperare.

Arrivano le idee di Nietzsche (1844-1900) e di Darwin (1809-1882). Per quest’ultimo l’uomo è il prodotto della teoria dell’evoluzione della specie e della selezione naturale.  Per l’altro il dionisiaco (il dirompente, il trasgressivo) non è visto come qualcosa di altamente negativo: fa parte dell’uomo, completa la persona avvolgendolo nella sua pazzia. Roba da far tremare le vene di chiunque, ma specialmente quelle di un’Italia bigotta che sta affannosamente cercando una sua identità, una sua lingua, un suo modo d’essere, un suo sentire comune (sul quale bisognerà ritornare).
Ma non finisce qua. Iniziano a pervenire bollettini con sopra scritte le idee di un certo Carlo Marx.
Il capitalismo è un’oppressione, il comunismo – la libertà. Soggiornano in Italia persone come Bakunin (1814-76. Nel 1865 soggiorna a Napoli), teorici dell’abbattimento dello Stato, dell’anarchia; arrivano le idee di Herzen (1812-70), nobile e populista, oppositore degli Zar (anche lui soggiornò in quegli anni in Italia).
Milano nasce e si afferma come centro imprenditoriale. Nasce anche nel 1876 il CORRIERE DELLE SERA, il grande giornale italiano, nell’anno in cui al potere (al governo) va la sinistra di Depretis. C’è come un respiro, un’apertura, una speranza (ma entra oltre a questo, una parola nuova, trasformismo,  che sembra inventata da noi italiani, anche se non è così).  Intanto, per chi ha a cuore la scuola, torna al ministero dell’istruzione, Francesco De Sanctis, anche se per poco. Saranno due spezzoni di tempo perché poi, nel 1883, morirà, però farà in tempo a dire due cose:
«chi parla di scuola è destinato all’eternità»…
e
«sarei pronto a dar via una facoltà universitaria in cambio di qualche istituto professionale in più».

Sono gli anni in cui consolida su questa scia l’asse Milano-Roma. L’A1 ancora non esiste, ma il tracciato mentale già c’è.
Roma oltre che essere la capitale della nazione è anche una città ricca di fermenti. Nascono, si sviluppano e si stampano riviste e inserti culturali; collaborano scrittori, artisti e musicisti, grazie anche all’impegno di piccoli editori, uno dei quali si chiama Angelo Sommaruga. Insomma, in queste due città c’è fermento e fervore culturale.
Solo Napoli con F. De Sanctis (1817-1883), A. Labriola (1843-1904), B. Spaventa (1817-1883), L. Settembrini (1816-1876), B. Croce (1866-1952) si può permettere di competere con l’asse appena citato.
Nonostante tutto, comunque, l’Italia si trascina dietro un’immagine di sé troppo tradizionale e proprio negli anni tra il 1861 e il 1915 cerca di rifarsi. Capisce il suo limite e attraverso un passaggio tutto sommato inconscio, comprende che deve far entrare nel suo vocabolario parole nuove e anche un po’ di magia: e la parola magica, capace di svecchiare un mondo, una concezione, un’idea, era la parola “contaminare”.
Contaminare come rimescolare le carte, far dimenticare quello che è stata la nostra letteratura o gran parte di essa.
Il primo passo per arrivare a dire e fare qualcosa di diverso è l’affermazione del genere Romanzo, al posto della solita Poesia. Qualcuno ha detto, e noi lo prendiamo per buono perché ci tocca, che si afferma il Romanzo quando si mette da parte l’io. Quando si uccide la voglia di parlare di sé, di mettersi davanti a tutto e a tutti. Quando l’autobiografia non travalica il racconto. Insomma, quando si elimina la voglia di parlarsi addosso, si arriva al romanzo. E così fu anche in Italia.
Certo, avevamo già avuto il primo nostro grande romanzo, e nemmeno tanti anni prima: Manzoni ce lo aveva regalato e noi ne eravamo orgogliosi,  sia per il contenuto che per la forma.

Però, pensiamo un momento alla battuta del film La scuola di Lucchetti, quando il prof interpretato da Silvio Orlando dice che mentre in Italia Manzoni (1785-1873) scriveva e riscriveva il suo unico romanzo, in Russia c’era chi come Dostoevskij (1821-81) infilava questi titoli, tra gli altri: “Umiliati e offesi”, “Memorie del sottosuolo”, “il giocatore”, “Delitto e Castigo”, “L’idiota”, “I demoni”, “L’adolescente”, “I fratelli Kamamazov”, poi una serie infinita di racconti e alcuni saggi. Oppure Tolstoj (1828-1910) di qualche anno più giovane, che si era presentato con opere come, “Guerra e pace”, “Anna Karenina”, “Resurrezione”, “Sonata a Kreuzer” e una serie infinita di racconti. Qui ci fermiamo senza considerare le opere infinite né di Checov che nasce nel 1860, né di Gogol che viene però prima essendo nato nel 1809.

Paradossalmente però, l’opera di svecchiamento di cui stiamo parlando avviene, in Italia, attraverso l’apporto di due luoghi distanti e opposti: uno al nord e l’altro a sud, per onorare sia la storia che la geografia della nostra letteratura, come fosse per comprenderla tutta… Stiamo parlando di Trieste e la Sicilia.
Da Trieste ci sono Svevo e Saba, il romanzo e la poesia, con novità forti nell’uno e nell’altro campo. C’è Svevo che con Zeno ci proietta in Europa direttamente, avendo recepito sia la psicanalisi, sia le idee di un certo James Joyce. Insomma, siamo al centro del dibattito culturale, non più ai margini.
E poi c’è la Sicilia con Verga, Capuana, De Roberto e il giovane Pirandello. Sì, è vero, i siciliani di allora in maggioranza si spostavano per studiare e lavorare in continente, a Roma e Milano, ma spesso però ritornavano  o comunque scrivevano dei loro luoghi di partenza.

Il concetto di geografia e storia della letteratura italiana è stato introdotto in Italia da Carlo Dionisotti con un libro uscito nel 1967 in cui si trovava il saggio (da cui il titolo). Ma della sua idea ne aveva già parlato nel 1951. Comunque, al di là delle semplificazioni che pure ci sono state sulla questione, semplificazioni portate ad arte sul terreno della regionalizzazione della nostra letteratura, la risposta più efficace e convincente l’ha data in un suo saggio Asor Rosa, quando ci spiega che per forza di cose la nostra letteratura era regionale, visto che non c’era unità fino alla seconda metà dell’800. Quello che ci ha tenuto uniti come letteratura è stata la lingua (da sempre al centro delle dispute, su come dovesse essere). Dante, Bembo e Manzoni sono i tre poli che in secoli diversi hanno affrontato la questione, tanto che alla fine tutti gli scrittori si sono inventati una propria lingua, cosa che in altre letterature  non c’è, non si riscontra.

Dunque gli scrittori italiani si confrontano alla pari con la cultura straniera, questa volta si va oltre l’invocazione della signora De Stael* di qualche decennio prima:
«Dovrebbero a mio avviso gl'italiani tradurre diligentemente assai delle recenti poesie inglesi e tedesche; onde mostrare qualche novità a' loro cittadini». (Madame de Staël, “Sulla maniera e la utilità delle Traduzioni”, traduzione di Pietro Giordani)
(Madame De Stael, nel 1816 si inserì in Italia nella polemica tra classicisti e romantici con l’articolo da cui è presa la citazione).

Questa volta, però, il confronto ci fu sul serio.  Specialmente con la Francia.
Si spostarono a Parigi D’Annunzio, Marinetti,  Savinio, De Chirico, Soffici, per un po’ Ungaretti … e seppure in termini e modi diversi,  l’apporto di conoscenze, di reciproca influenza porterà  l’Italia ad entrare in tutto e per tutto nella modernità.
Eppure fu rilevato in quello stesso periodo che una fetta considerevole di italiani non era contenta di tutto ciò. O meglio, quello che oggi con la distanza degli anni sembra un fatto normalmente acquisito, cioè lo svecchiamento di un sistema culturale attraverso l’incontro con altre culture, allora venne criticato, non fu visto e valutato nella sua giusta dimensione.
A questo proposito qualcun altro si chiede (allora come adesso) se non sia proprio questo il difetto dell’Italia, cioè quello di non vedere le positività che sono evidenti e invece  accentuare le negatività, una sorta di esercizio critico autolesionistico, un mettersi da soli il bastone tra le ruote,  che sembra essere una nostra caratteristica.

Ma chi erano gli autori della condanna di tutto quello che stava avvenendo in Italia?
In primo luogo erano i mazziniani, i socialisti e i cattolici intransigenti. Perché? Essenzialmente perché per loro non essere arrivati alla Repubblica ed essersi fermati al Regno, era stata una sconfitta. Con questo atto mancato in pratica si era tradito il Risorgimento, il pensiero dei padri era stato travisato. E tutto ciò fu assorbito dalle nuove generazioni che continuarono con questa critica. Loro, i nuovi, con una certa durezza alimentavano una sorta di insofferenza per coloro che avevano voluto ed attuato l’Unità d’Italia.
Uno dei sintomi che vien fuori  da tale atteggiamento fu l’acceso antimanzonismo che si ebbe nel secondo ottocento. Gli scapigliati in testa contestavano a Manzoni l’essere diventato, con i “Promessi Sposi”, il simbolo dell’unità d’Italia. Tanto più che le sue idee linguistiche, il toscano vivo, erano diventate subito le linee ispiratrici della politica educativa che il Regno tentava di impartire. Quanto riuscendoci, non si sa. Ma intanto le linee guida c’erano, ed erano quelle di Manzoni. E questo bastava ad alimentare negli oppositori il loro sentire di essere in disaccordo.
Tanto più che in generale le contraddizioni erano presenti ed erano evidentissime: Roma a fine secolo con i suoi scandali di politica e affari e con la imperante, già allora, speculazione edilizia,  certo non aiutava. E pur tenendo conto che tra l’ideale e il reale, tra la poesia e la prosa, c’è di mezzo il mare, non si capiscono lo stesso alcuni atteggiamenti denigratori che poi a conti fatti avranno ripercussioni negative.
Intanto De Amicis, che pure aveva tendenze socialiste, definisce in quegli anni la letteratura italiana ‘povera, poverissima’. Croce dal canto suo e dall’alto della sua autorità, si impegna a censurare ogni minimo tentativo di arrivare alla modernità che, secondo lui, poteva sovvertire le gerarchie tradizionali tra i generi e i saperi. Gli steccati che Croce innalza altissimi tra le discipline sono un segnale della sua cautela ad accettare le novità. Naturale, allora, che uno spirito libero come Marinetti si inventi il FUTURISMO per cercare con un balzo felino di superare l’arretratezza,  senza correre il rischio di restare impantanato nelle situazioni.
In effetti, al di là dell’elenco delle contraddizioni, si sta solo dicendo che il senso di scontentezza che si provava in Italia, il non riconoscere che molto era stato fatto in quei primi 50 anni, date anche le condizioni di partenza, generò o alimentò una sola componente, vale a dire l’ala nazionalistica della popolazione: venne fuori e si affermò il patriottismo nazionalistico.
Siamo nella fase che Vittorio Foa ha definito del nazionalismo democratico, cioè è ancora in atto la distinzione tra un nazionalismo fatto di sano patriottismo e quello che tra poco, un decennio dopo o poco più, si affermerà e che di democratico non avrà più nulla.
Entra nelle menti, anche più acute, che l’Italia potrebbe trovare la soluzione ai suoi problemi  colonizzando altri e interi  territori. In questo modo si pensa si possano risolvere i problemi interni,  mettere finalmente d’accordo tutti e arrivare ad una visione comune, ad un sentire comune, allargando i propri confini. È un’ipotesi che sta sul tavolo e inspiegabilmente entra nell’immaginario di una parte del popolo italiano.
Poi, nel discorso del 1911 dal titolo “La Grande Proletaria si è mossa”, Giovanni Pascoli si incaricherà di dire parole enormi sul nostro futuro, su quando avremo conquistato la Libia: porti, terre, case che saranno nostre, spazi infiniti da coltivare, e ciliegie da assaporare, lavoro per tutti. Il sogno di colonizzare che è già sempre vivo e vegeto viene rinforzato dalle sue parole.
Alla fine, proprio lui non riuscirà a vedere il nostro futuro perché morirà prima, nel 1912. Mentre, invece, la quasi sicura catastrofe della guerra di Libia sarà solo l’inizio, perché appena dopo ci sarà l’immensa catastrofe in termini di vite umane della grande guerra.

1.
Un inciso per rilevare un paradosso o una contraddizione (a seconda dei casi) se ce ne fosse bisogno: nell’ultima parte della sua vita, Pascoli, insieme a D’Annunzio e Carducci,  diventerà  una dei ‘grandi vati’ della nazione.

2.
La lettura del libro di Vittorio Foa, “Questo Novecento”, secolo che lui ha attraversato tutto essendo nato nel 1910 e morto nel 2008, parla, come si capisce dal sottotitolo, di ‘passione civile e di politica come responsabilità’, che (oggi, adesso)  sembrano parole desuete. Foa mette in risalto una cosa molto semplice, che è questa: «Ogni volta che in Italia c’è stato un anelito di libertà, è intervenuto qualcosa o qualcuno a ricacciarlo indietro, in vari modi». In sintesi, nel corso del secolo, spesso ci sono stati momenti in cui, per vari motivi, l’Italia aveva la possibilità di fare passi avanti notevoli, o anche solo di stare al passo con i tempi, o solamente di recuperare il tempo perduto (anche a livello letterario), ma ci sono state forze contrarie, forze antiche e tradizionali, o solo primitive e paurose di un avvenire democratico, che  in qualche modo venivano fuori e facevano perdere tempo. Perdere tempo ad una nazione.


3.
Quando inizia il 900, troviamo ad attenderlo alcune figure letterarie che hanno qualcosa da dire.
Ma anche da ridire. Una di queste è Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944).
Marinetti, direttore inizialmente insieme a Sem Benelli della rivista “POESIA”, promuove nel 1905 una inchiesta internazionale sul verso libero. La rivista che poco dopo diventerà l’organo ufficiale del futurismo, all’inizio si presenta con forme meno accentuate di rottura, nonostante sia agguerrita e comunque tendente e attenta alle novità
Marinetti, che potremmo definire il contraltare di D’annunzio, sa che cos’è la pubblicità ancor più del ‘vate’ tanto che i numeri della rivista avranno sempre un successo di pubblico e un rilievo internazionale, grazie proprio alla sua capacità di sfruttare quello che poi sarebbe diventato , di lì a poco, un costume naturale.
Marinetti, infatti, spedisce la rivista a tutte le personalità illustri del tempo, personalità non solo letterarie.  Nell’indirizzario include anche e soprattutto personalità dichiaratamente ostili a lui e alle sperimentazioni, perché «qualsiasi cosa purchè se ne parli, anche lasciarsi lanciare da una finestra», (esagerato).
Altra inchiesta internazionale della rivista, prima, era stata “la bellezza della donna italiana”.

Ma la questione del verso libero è molto importante. Stavano cambiando le regole delle poesia e alcuni non addetti ai lavori facevano molta confusione. La Francia era in qualche modo all’avanguardia. Già nel 1894, Mallarmè ad un congresso aveva annunciato che le regole del verso erano state alterate. Intanto il sottogenere ‘lirica’ in questo periodo viene assimilato alla poesia tout court… e questo per la prima volta. Il dibattito su che cos’è la poesia è acceso.

Durante l’epoca del simbolismo, che è preparazione alla modernità se non modernità iniziale essa stessa, la parola dominante è ANIMA, che viene dal romanticismo, ma che nel simbolismo viene dispiegata in forme diverse e importanti. Ma la novità del 900, secondo Simmel, sta nel passaggio della sensibilità del tempo alla parola VITA. Cioè, non più in una parte specifica qual era l’anima, ma tutte le sue componenti, cioè la vita in generale. Secondo questo passaggio, per così dire epocale, l’anima la si ritrova più nella musica, mentre  nella poesia c’è la vita. 
Pascoli e D’Annunzio matureranno modelli di originalità metrica opposti, ma che genereranno  influenze nel corso del tempo. Avranno degli epigoni che continueranno nella loro scia. Intanto le ragioni del verso libero si impongono con accentuata naturalezza, seppure con qualche differenziazione.
Gian Piero Lucini, che nell’inchiesta con le sue risposte avrà un rilievo particolare, dirà a proposito: «Il verso libero deve ondeggiare, seguendo tutte le emozioni del poeta, apportandovi quelle diversità di ritmo e d’armonia le quali meglio convengono ai diversi concetti che manifesta. Nessuna regola rigorosa gli deve impedire lo sviluppo, nessuna barriera deve arrestarlo nell’onda sonora, nel plastico movimento».

Di T. S. Eliot una delle più celebri osservazioni sull’argomento: «Non esistono in realtà due tipi di verso; quello libero e quello chiuso, c’è soltanto un’abilità che deriva dall’avere acquisita una tecnica così perfetta che la forma diventa istinto e può adattarsi ad ogni fine particolare».

Per Saba il ‘secolo breve’, definizione che lui non poteva conoscere, ha un altro tipo di caratteristica, o forse voleva dire la stessa cosa? In “Scorciatoie e raccontini” dirà:
«Il novecento pare abbia un solo desiderio: arrivare prima possibile al 2000».

La caratteristica principale di questo inizio 900 potrebbe essere la definizione di età della guerra o di età delle guerre. In 30 anni, dal 1915 al 1945, ci saranno due guerre e succederanno molte cose.
In sintesi:
– 1915, l’Italia entra in guerra  (dopo la disputa tra interventisti e non interventisti);
– c’è la disfatta del 1917 (Caporetto) con tutto il carico di accuse e difese che ne consegue;
– 1918, la vittoria inconcreta (qualcuno ha detto);
– 1922-25, il regime fascista (inizia);
– 1938, le leggi razziali;
– 25 luglio 1943, la caduta del fascismo;  
– 8 settembre 1943, l’armistizio, con due anni di guerra civile.

Ma la tesi da più parti sostenuta è che in questi 30 anni, dal 1915 al 1945, si posero le basi, si piantarono le radici di tutto quello che sarebbe successo durante il resto del secolo. Tutto quello che seguì, anche per quanto riguarda la storia letteraria, ha origine in questo arco temporale.
Intanto, ricordiamo,  la guerra ha interessato tutti: 50milioni di combattenti in tutta Europa. Per noi, l’altopiano del Carso, con i suoi 300mila caduti, farà esclamare a Zeno Cosini nel romanzo di Svevo, «la guerra mi ha raggiunto».
Ma la grande guerra, in fondo, raggiunse tutti, o quasi.
Tra i tanti Campana, D’Annunzio, Serra, Spitzer, Rebora, Papini, Ungaretti, Montale, De Roberto, Marinetti, Malaparte, Gadda.  E tra Serra che morì nelle prime settimane del conflitto e Papini che invece fu riformato, ci sono i due estremi, per cui, anche chi non partecipò alla guerra direttamente, ne rimase folgorato, in tutti i sensi. Rebora, sappiamo, a causa della guerra prima divenne nevrotico e poi addirittura si convertì e divenne prete.
In questo travagliato periodo inizia anche da noi il Romanzo, che come genere in Italia non aveva mai avuto troppa fortuna. Nell’accezione di Croce, si passa dalla poesia alla prosa, che è una specie di critica negativa neanche tanto velata, ma che invece dimostra intero tutto il nostro conservatorismo.  Un conservatorismo da cui, alcuni, vorrebbero in tutti i modi staccarsi.
Un critico, come abbiamo già detto, aveva spiegato che da noi il Romanzo era sempre fallito  perché chi lo scriveva inciampava continuamente nel proprio Io. Era un io lirico, autobiografico, ideologico, filosofico, moralistico o documentario, chissà? Ma di sicuro era smisurato. Certo che ci fu bisogno, per uscire dalla palude, di Bontempelli, Pirandello e Svevo che l’Io lo usarono in modo meno provinciale. Capito l’errore, si presero le misure e si entrò in un altro contesto. Poi con Moravia qualcuno ebbe l’impressione che l’Io fosse stato addirittura abolito, ma in effetti il romanziere lo aveva solo messo in gioco in modo diverso.
E qui, però, inizia il fascismo. Anzi, prima ci fu Mussolini (1919, Milano), i fasci di combattimento. Un programma.
Mussolini è un personaggio, tanto per non perdere il ritmo, che ha un Io fuori misura. Ha una personalità (sempre sul terreno dell’Io)  come quella di D’Annunzio, con il quale avrà un rapporto fatto di alti e bassi. Ma i due, essenzialmente, si sopporteranno.
Intanto l’intellettuale Piero Gobetti vede il ‘fascismo come autobiografia di una nazione’ e per le conseguenze delle aggressioni di fascisti morirà appena 25enne.

Per non dimenticare quello che successe nell’epoca in questione, ecco un elenco per forza di cose incompleto di morti antifascisti.
1924, delitto Matteotti.
1926, muoiono in Francia per le ferite riportate e le conseguenze di aggressioni fasciste il liberale Giovanni Amendola e Piero Gobetti.
1937, vengono uccisi in Francia i fratelli Carlo e Nello Rosselli, da estremisti di destra.
Sempre nel 1937, muore Antonio Gramsci: era in carcere dal 1926, al processo qualcuno aveva detto: «Dobbiamo impedire per i prossimi vent’anni a questo cervello di funzionare». Per farlo morire ci volle meno, l’altra cosa non gli riuscì.

L’immagine da fissare, forse, è questa: il fascismo ci impedirà per vent’anni di entrare nella modernità, ma nello stesso tempo si preoccupa, suo malgrado, di tenere ‘in caldo’ tutto quello che verrà dopo.
Tenere a freno forzato qualcosa è sicuramente un handicap, ma può diventare una risorsa perché ne aumenterà inconsapevolmente la potenza.
 Molte delle cose che stavano cominciando a succedere furono in parte bloccate, altre trovarono vie traverse per vivere ed emergere, ma nello stesso momento in cui si impediva, si dava anche la possibilità di opporsi, magari stimolando a trovare soluzioni creative ed intelligenti per sopravvivere. In fondo, nel bene e nel male, le cose che l’Italia produrrà dopo il fascismo  provengono da questo periodo.
Si parla nel ventennio di una letteratura reattiva che proprio reagendo darà il meglio di sé.
E qui entrano in gioco, per capire la struttura di quello che si è appena detto, le grandi famiglie intellettuali italiane. Esse in pratica forniranno al fascismo sia i sostenitori che gli oppositori, con ramificazioni sorprendenti e poco prevedibili.
Mussolini intanto è onnipresente e per far capire come la pensa, mette subito il cappello sulla manifestazione di inaugurazione a Roma del Teatro d’Arte di Bontempelli e Pirandello: regime-spettacolo? Anche. Il fatto consistente è che il fascismo con i suoi programmi culturali cercherà di occupare tutti gli spazi disponibili per raggiungere quell’idea di acculturare il popolo e farlo riconoscere in una comunità etico-politica (così si diceva).

Poi, l’irruzione anche violenta della politica nei programmi scolastici. Cosa diversa la riforma Gentile del 1923 che, a dispetto di quello che si dice, all’interno del movimento non fu accolta tanto bene. Ma che comunque incarnava talmente il sentimento dell’italiano medio, che ancora oggi è presa a modello e difesa da persone di appartenenza politica diversissima.
In breve, il fascismo in campo culturale non era univoco, in generale ha diversificato gli interventi. Ha usato sia la mannaia che la carezza, si è imposto sia con il dare sia con l’avere.
Certo che i sintomi delle contraddizioni c’erano tutti; le sostanziali arretratezze del nostro sistema culturale erano evidenti. Nel 1927 quando Grazia Deledda vinse il premio Nobel per la letteratura, si dice e si sa, che dovette farsi il passaporto perché prima non le era mai servito, non era mai uscita fuori dai confini della sua isola, forse al massimo era arrivata in penisola. Ma questo era l’anticipo di quello che poteva avvenire e che avvenne, è cioè l’essere proiettati dalla provincia più sperduta direttamente nella cosmopoli più centrale e progredita. Saltare dei passaggi intermedi che altre nazioni o letterature avevano vissuto, perché non c’era più tempo.

Naturalmente la modernità per noi, e quindi un certo novecento, comincerà nel 1943, quando si libereranno le forze migliori e ci sarà modo di capire il valore di alcuni autori.
Insomma la tesi che il ventennio fascista abbia fatto da incubatore a tutto quello che avverrà dopo non è una tesi infondata. È un’idea che ci sta, verrebbe da dire.
Infatti, già durante gli anni trenta ci saranno le traduzioni dei nuovi autori americani e russi, la critica avrà modo di esprimersi: Praz farà conoscere l’Europa letteraria, Debenedetti introdurrà Proust e Contini presenterà Mallarmè e Eliot.
Molti antifascisti andranno via, pubblicheranno libri all’estero, mentre molti scienziati italiani, che lavoreranno fuori dai nostri confini, arriveranno al Nobel con le loro ricerche e i loro studi. Ma, anche all’interno della penisola, in condizioni precarie, si svilupperanno idee rivoluzionarie e interessantissime vissute come reazione a qualcosa, per esempio (naturalmente) alla mancanza di libertà e alle imposizioni del regime.
Il primo caso, quello emblematico, è rappresentato da Carlo Levi. La sua figura è legata alle scoperte etnologiche e a tutto quello che verrà sviluppato su tale filone appena dopo la fine del fascismo. L’intellettuale di opposizione Levi, viene mandato dal fascismo al confino in Lucania. Lì, oltre a scoprire ragazzi precoci come Rocco Scotellaro, Levi scoprirà un mondo appartato che descriverà nel suo “Cristo si è fermato a Eboli” e darà un contributo non irrilevante alla continuazione delle ricerche una volta finita la guerra. Altro esempio, il romanzo “Lessico famigliare” di Natalia Ginzburg, che Calvino definì il ‘ritratto di famiglia dell’Italia migliore’. Il testo narra le vicende della famiglia Levi a Torino durante il fascismo.

Da questo punto di vista non si scopre nulla di nuovo dicendo che il regime di Mussolini non tralascia di curarsi né della radio, né della televisione (poca perché solo dal 1934 e in modo sperimentale), né del cinema: il neorealismo cinematografico nasce prima di quello letterario. Gli intenti sono sempre, come dire, contraddittori: l’Accademia d’Italia inventata da Mussolini avrebbe dovuto oscurare Lincei e Crusca dei secoli passati, ma appena poco dopo fu imposto, agli accademici, il giuramento di fedeltà al regime. Poi c’è la figura di Gentile che varò l’Enciclopedia Italiana. Egli fece collaborare  molti studiosi antifascisti, chissà se per libertà o calcolo, forse infine per entrambe le cose.

3.1
Altra città simbolo che avrà un ruolo determinante nella cultura italiana, proprio negli anni che vanno dal 1920 al 1940, sarà Firenze. Nascono in questo periodo e si sviluppano una serie di riviste letterarie, politiche, filosofiche e case editrici, animate da veri e propri giovani talenti litigiosi sì, ma prolifici e intelligenti, che faranno esordire molti nuovi poeti e nuovi narratori con un futuro quasi certo.
(Dopo la fine della guerra, inspiegabilmente, Firenze perderà la centralità in campo letterario).

Intanto, Anna Banti perderà sotto i bombardamenti del 1944, i manoscritti di due suoi romanzi e dovrà ricostruirli a memoria. Nel farlo, per quello in cui parla della pittrice Artemisia Gentileschi, adotterà una sorta di letteratura di grado secondo. Mentre ricorda, ricostruisce quello che è avvenuto. Alla fine sarà la guerra, la realtà brutale con cui confrontarsi che innescherà i  meccanismi della composizione.
Ma tutta la letteratura del secondo novecento, quella che raggiungerà una visibilità internazionale con Gramsci, Calvino, Montale, Levi, Morante, Eco, nasce, si forma e si sviluppa sulle e nelle restrizioni del fascismo che coartandola in qualche modo l’ha fortificata.
Quindi la Resistenza è vista essenzialmente come gesto di rinascita ma è anche un potente  acceleratore di responsabilità, si diventa di colpo non solo adulti ma portatori di speranze e di certezze sia sociali che letterarie. Carichi non da poco!



Rocco Scotellaro, chi era?
Nato nel 1923 a Tricarico, piccolo centro della Lucania, e morto a Portici nel 1953.
«Uno schianto terribile nel cuore in una stanzetta da studente in subaffitto». Qualcuno ha scritto, in realtà aveva trovato lavoro come assistente e ricercatore alla facoltà di agraria con il prof Manlio Rossi-Doria.
Sindaco del suo paese giovanissimo, nel 1949 partecipò all’occupazione delle terre con i suoi contadini. L’anno dopo fu arrestato e incarcerato con false accuse relative al suo mandato. Poi fu liberato. Ma la vergogna e l’umiliazione subita ingiustamente, insieme a qualcos’altro di indefinibile, se le portò da allora sempre dietro (e dentro) di sè. Fu amico di Carlo Levi che di quelle terre conosceva morte e miracoli.  Poco dopo fu reintegrato nel suo ruolo di sindaco, ma preferì andare via.
È stato definito poeta del cuore, e la sua opera letteraria in parte è stata avversata,   in parte non capita.
Il suo rapporto di amicizia con Amelia Rosselli inizia nel 1950. Dura solo tre anni.
Lei, figlia di Carlo, ucciso a Parigi nel 1937, ha vissuto in Francia, poi in Svizzera e poi negli Stati Uniti. Le è morta da poco la madre, è caduta in un brutto esaurimento nervoso e ora si sta riprendendo. Si conoscono a Venezia, ad un convegno, diventerà un’amicizia dell’anima. La delicatezza e le attenzioni che traspaiono dalle parole che usano per definire il loro rapporto è esemplare. E tra due personalità dalle radici così distanti. Lei dirà, in “Cantilena” per Rocco Scotellaro: «ho cominciato a scrivere versi alla sua morte». (1953)



4.
Nel secondo novecento – per riprendere un discorso solo accennato-  ad un certo punto, si è sentito il bisogno di introdurre le categorie geografiche per classificare autori e movimenti letterari. Ce n’era effettivamente bisogno? Forse sì, forse no. Certo la critica di matrice ‘desanctisiana’, che vedeva la letteratura come spinta all’unità d’Italia, aveva probabilmente esaurito la sua forza. Succede così che si afferma nel 1967 il libro di Carlo Dionisotti, “Geografia e storia della letteratura italiana”. Il saggio parte da presupposti diversi dicendo che proprio i luoghi di origine di autori ed opere possono aver avuto una incidenza forte sia in termini di resistenza sia in termini di evoluzione della nostra storia letteraria. Che è una tesi quasi inconfutabile.
Ma è anche vero che spesso, da qui, si è alimentata una moda, confondendo un po’ le acque,  per cui elementi provenienti da una certa critica sofisticata sono diventati pervasivi scadendo a senso comune quasi imprescindibile.
Insomma, forse la storia letteraria è essenzialmente storia, e la geografia a volte c’è, a volte – no. Oppure c’è sempre anche la geografia, ma qualche volta non traspare la sua influenza. Chissà? La questione è aperta.

 E comunque, ad un livello diverso, anche nel secondo novecento il dualismo Roma-Milano c’è, esiste, è tangibile. A Roma, è vero, si stampano riviste, c’è il cinema, ma la grande editoria la trovi  a Milano. Poi c’è la Tivù di Stato romana contro la TV privata milanese. C’è anche Torino con Einaudi e Fiat, mentre si spegna Firenze (già lo abbiamo detto) ma si afferma Bologna negli anni ’70 con il Dams e i movimenti studenteschi.

La tesi che il secondo novecento sia stato per noi un periodo fecondissimo, splendente e lucente, è una tesi che sta in piedi. Obiettivamente. Inizia l’età del benessere economico, c’è il cinema neorealista, poco prima del ’68 si afferma l’arte povera, due cose che ci contraddistinguono; c’è una fase di scoperte e riscoperte che continua incessante e movimentata. Le fasi culturali in questo periodo sono brevi, estremamente contenute in pochi anni, 10-15 al massimo, poi si passa ad altro, senza rimpianti apparenti.
Retorica o no, la domanda se alcune date del secondo novecento abbiano inciso o meno sulla vita e le opere degli scrittori operanti sul territorio nazionale, è appunto solamente retorica. In quale misura i fatti corrispondenti alle date abbiano inciso sui singoli, questa è materia di discussione. E comunque anche chi per reazione ha cercato di ignorare alcuni avvenimenti, ha, in qualche modo, comunicato la sua insofferenza. Con la propria noia o qualcosa tipo atteggiamento snobistico e aristocratico, anche senza volerlo ha dato una risposta.

Un elenco sicuramente parziale di avvenimenti e date caratterizzanti e performanti, potrebbe essere questo, senza scervellarsi troppo, naturalmente:
– 18 aprile 1948: vittoria della DC alle elezioni;
– 1956, invasione dell’Ungheria e inizio della destalinizzazione;
– 1962, democristiani e socialisti uniti, centrosinistra;
– 1968, contestazione giovanile;
– 1978, rapimento e uccisione di Aldo Moro;
– 1980, inizio del ‘riflusso’;
– 1994, fine della prima repubblica.


5.
Seguendo questa linea, un po’ immaginaria un po’ no, per tornare al quindicennio che va dagli anni ‘40 alla metà degli anni ‘50, più o meno si può dire che succedono queste cose: continuano, si consolidano, sono presenti le poetiche realiste e neorealiste con al centro la finalità politica dell’arte. C'è la presentazione dell’eroe proletario positivo con una sostanziale condanna della ricerca formale (che verrà poi rivalutata). G. Lukacs è il nume tutelare dell’impegno in letteratura, che diventa a volte, forse spesso, anche una sorta di imprigionamento, con tutte le implicazioni che questo comporta, tra le quali la mancanza di obiettività è quella più macroscopica.

La letteratura insegna che la chiusura porta sempre alla morte, intesa in senso culturale, naturalmente. Se non hai mai un contraddittorio, qualcuno che ti dice «guarda che forse stai sbagliando», alla fine ti sembra che tutto quello che fai e dici vada bene. Il semplice parlare con persone di altra religione o conformazione culturale ti dà la possibilità di essere più presente, più vigile, più dinamico, insomma, meno statico, e di accettare alla fine una profonda verità, quella di smascherare un’ombra Junghiana gigantesca, e cioè che la natura umana non è buonissima e che noi stessi, come persone, siamo implicati fino in fondo, specialmente quando questa natura la vediamo e la notiamo negli altri. 

Ipoi, però, i cambiamenti si fecero più evidenti dal ’56 in poi.
L’invasione dell’Ungheria e la conseguente uscita dal PCI di molti intellettuali, insieme al boom
economico furono elementi determinanti per un cambiamento ‘epocale’ della visione del mondo e della letteratura.
Se l’immaginario degli aspiranti scrittori nei primi anni cinquanta era tutto concentrato su Cesare Pavese, che si suicidò nel 1950, fu ‘l’ingegnere in blu’ Carlo Emilio Gadda che con il suo “Quer pasticciaccio…” che esce nel 1957, a prendere il suo posto. L’euforia per Gadda era pari solo ad una generale volontà di cambiamento, di superamento di posizioni, per cui se qualche anno prima tutti volevano essere Pavese, dal 57 in poi, diciamo, tutti volevano essere Gadda.
Poi ci fu il gruppo ’63 irrequieti e sperimentatori e che con i “Nuovissimi” puntavano a riallacciarsi alle avanguardie storiche. C’era in questo periodo una intensa attività teorica e il contendere si poteva riassumere in una sorta di lotta dell’espressionismo contro il naturalismo, una volontà di mettere tutto in discussione e di  polemizzare  di tutti con tutti. Si va dal generale rifiuto dello storicismo sia nella forma di Croce che in quella di Gramsci (con eccezioni naturalmente), si assimila dalla cultura francese la semiotica, lo strutturalismo, la psicoanalisi; la politicità ormai è quella della forma contro quella dei contenuti, ci si apre alle nuove tecnologie e si comincia a parlare di cultura di massa e della sua critica, insomma il periodo è effettivamente fecondo, e solo due libri,  uno per la critica “La barriera del naturalismo” di Renato Barilli  e l’altro per la prosa, “Vogliamo tutto” di Nanni Balestrini, condensano già nei titoli una visione nuova della realtà.
Quando però arriva il ’68  le cose cambiano ancora. Anche chi contestava e polemizzava non viene risparmiato, la contestazione travolge anche la stagione dello sperimentalismo, oltre a sovvertire il  linguaggio c’è bisogno di qualcosa di più politico, sembra un ritorno indietro, forse per qualcuno lo è, ma generalmente non è proprio così, c’è l’esigenza di contestualizzare le cose, di non essere solo contro. C’è l’esigenza di svecchiare il mondo, di superare vecchie gerarchie che in fondo continuavano a controllare tutto e vivevano di rendita. Che in fondo avevano solo cambiato posizione, mettendosi di fianco invece che supine, ma continuando ad occupare lo stesso spazio di sempre. Il ’68 forse non mise fine a tutto ciò, ma certamente puntò il dito, denunciò un’apparente libertà condizionata da tante e troppe cose.
E così abbiamo in quegli anni la critica al posto del romanzo, la poesia che diventa happening, e poi il teatro di rottura, il teatro di strada, con Ronconi, Bene, Fo, Scabia, ma anche con Leo e Perla che andranno a stare in comunità distanti e difficili per vivere il teatro sulla propria pelle e riuscire a trasmetterlo in forme meno mediate.
Al livello filosofico sono gli anni in cui Nietsche viene sottratto alla vulgata nazionalsocialista e trasformato in maestro della sovversione, la completezza la si raggiunge con il ‘dionisiaco’, anche se ora detto superficialmente sembra chissà che, in fondo alla fine apre solo nuove strade, meno condizionanti, più libere.
C’è poi un intellettuale in Italia che offre a tutti la visione e non solo della sua complessa
personalità, la mette a disposizione, non si tira indietro, dona una ‘spinta vitalistica’ alla letteratura, ed è  P.P.Pasolini  che, però, ad appena 55 anni viene ucciso all’idroscalo di Ostia, forse vittima della sua spinta vitalistica, e che colloca quell’avvenimento tra l’ammonimento e lo scherzo del destino.
Poi per i 15-20 anni successivi la parola d’ordine sarebbe stata ‘la condizione postmoderna’, ed è J.F. Lyotard che la lancia intitolandoci un saggio nel 1979. Sul significato di questa parola molto si è discusso, ma sui tratti comuni delle poetiche postmoderne la maggioranza era sostanzialmente d’accordo. Si trattava di mettere in risalto la fine dei grandi racconti, delle narrazioni e delle ideologie, e di sapere che la realtà, il tutto, era frammentario. Come conseguenza c’era il recupero ironico della tradizione, un certo citazionismo, e un rifiuto della profondità, assieme alla sua nostalgia.
Naturalmente, dopo l’intransigenza formale degli anni sessanta e quella ideologica degli anni settanta, l’idea che si introducesse una certa discontinuità era plausibile, anzi necessaria e così quando esce “Il nome della rosa“ di Umberto Eco, diventa subito evento-fenomeno-spettacolo. Tutti ne parlano, molti di quelli che non l’hanno letto si presentano come profondi conoscitori, e forse per la prima volta l’uscita di un libro diventa discussione collettiva dimenticandosi o forse superando in questo modo sia la sconfitta del movimento studentesco che la fine del movimento operaio. Un lutto che alcuni hanno visto superato con euforia e che altri invece hanno gentilmente concesso alla commemorazione più intima.
Calvino, ormai morto da tre anni, nel 1988 viene trasformato in bandiera del postmoderno  quando escono le sue “Lezioni americane”. Leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità, coerenza (solo progettata), diventano vessilli di qualcosa che nessuno si mostra di smentire, forse perché pochi le lessero, allora.

Intanto anche le nuove ricerche in biologia cambiarono i paradigmi del sapere scientifico. E poi,  sul versante sociale, la caduta dei partiti tradizionali  cambiò la fisionomia del paese.
Per di più, nel decennio 1984-94, scompaiono tutti i protagonisti della letteratura del dopoguerra. L’elenco è lunghissimo: Banti, Calvino, Morante nel 1985; Parise nel 1986; Bassani, Cassola e Levi nel 1987; Bilenchi, Porta e Sciascia nel 1990; Ginzburg, Pratolini, Tobino, D’Arrigo, Testori, Fortini e Volponi nel 1994. 


6.
Uno dei tratti caratteristici della cultura repubblicana è la politicizzazione del campo letterario.  Molti intellettuali e scrittori che provano l’ebbrezza della ‘vita activa’, l’impegno politico in prima linea, il confronto portato con la propria persona, ad un certo punto  si rendono conto del proprio fallimento,  in tutti prevale le delusione. Questo però, magari, in un secondo momento.
Permane, invece una logica del tutto politica che dà vita ad un ‘peculiarissimo’ tipo di intellettuale, lo scrittore militante, sganciato dai partiti, specie dopo il 56, ma sempre pronto e desideroso di partecipare con la sua arte (con i suoi scritti) al dibattito in corso e, per un certo periodo, sempre pronto a prendere posizione sui fatti, sugli avvenimenti del momento, ad essere presente. Un presenzialismo che spesso, dopo un po’, dava anche un certo fastidio, con manifesti firmati da paginate di intellettuali (sempre gli stessi) su tutti gli argomenti possibili e immaginabili. Che ora sembra preistoria, che un poco manca e che non si capisce se sia stato un bene o un male.

Una curiosità.
Tra il 1917 e il 1924, nascono i maggiori intellettuali italiani, quelli che daranno vita al dibattito culturale della seconda metà del secolo, e sono: Fortini, Levi, D’Arrigo, Guerra, Risi, Orelli, Sciascia, Zanzotto, Bianciardi, Erba, Fenoglio, La Capria, Manganelli, Meneghello, Pasolini, Calvino, Campo, Ripellino, Testori, Giudici, Giuliani, Volponi, Samonà, Malerba, Pagliarani, Tadini.
Sì, è vero, hanno goduto di un periodo di pace e di prosperità economica, ma il loro motore, la loro forza  è stata un’altra.
Hanno ricevuto la spinta dalla guerra civile, hanno introiettato molto presto, da giovanissimi, il valore dell’intransigenza, spesso e volentieri prima verso se stessi. E poi hanno continuato per tutta la vita a considerare la parola come uno strumento per cambiare il mondo.
Ed è proprio questa letteratura nata dalla resistenza ad aver caratterizzato i primi cinquanta anni della repubblica che le hanno dato forza e vigore, che le hanno fatto da cemento e fondamenta.
Nell’ultima patte del secolo arrivano poi Eco, Vattimo, Portoghesi, Bonito Oliva, che si propongono di sgretolare gli imperativi che avevano animato la vita culturale repubblicana sin dalla sua nascita.   Ma questo è un altro discorso.

Cambiamento di prospettive dal moderno al postmoderno:

Moderno: tempo lineare e nozione di superamento
Postmoderno: esperienza della fine della storia

Moderno: Priorità dello sviluppo e della crescita tecnologica
Postmoderno: Scienza e tecnica appaiono rischiose e in parte negative

Moderno: Età di una ragione forte che costruisce spiegazioni totalizzanti del mondo
Postmoderno: Età dell’indebolimento delle pretese della ragione

Moderno: La ragione come principio unitario e gerarchico
Postmoderno: Emergere di una pluralità di modelli e paradigmi di razionalità non riconducibili gli uni agli altri

Moderno: Il pensiero come accesso al fondamento
Postmoderno: Pensiero senza fondamenti

Moderno: Piena coincidenza tra scienza, verità ed emancipazione

Postmoderno: la scienza riconosce il carattere discontinuo e paradossale della propria crescita.

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