Bollettino n. 1
Siamo nel 1968. A Sanremo, che è
considerato un po’ da tutti il regno
della canzonetta, vince Sergio Endrigo con ‘Canzone per te’. Un cantautore impegnato con una canzone
indovinata. ‘Canzone per te’ è
infatti un misto di melodia e suggestioni prese
direttamente dai Beatles e da motivi sudamericani.
Da lì a poco il ‘movimento’
occuperà le università e la lotta di piazza diventerà incandescente, ma a
cantare ‘Canzone per te’, insieme a
Sergio Endrigo, c’è Roberto Carlos, brasiliano, che sull’onda del successo si
trasferisce da noi per qualche tempo.
Louis Amstrong canta in coppia
con l’esordiente Lara Saint Paul ‘Mi va
di cantare’. Il motivo è molto orecchiabile e il grande Louis accompagnato
dall’orchestra di Henghel Gualdi, nell’occasione lancia un’occhiata torva a
Pippo Baudo quando il presentatore lo ‘costringe’ a fermarsi. Pensava di dover fare un
concerto o almeno una mezz’ora di esibizione. Ma così non è. La sua è solo una
breve apparizione. Un critico letterario che avrebbe fatto per poco anche il presidente della Rai, si dice abbia detto:
“Hanno costretto un cavallo a fare la pipì in un bicchierino”.
Intanto, arrivano da oltreoceano
grandi voci del jazz. Shirley Bassey, Eartha Kitt e Dionne Warwich, quest’ultima
ha una voce notevole ed è particolarmente ‘dotata’. Il brano della Warwich, ‘La voce del silenzio’, diventerà uno dei
brani di punta di Mina, la cantante italiana ‘dotata’ ugualmente.
Ma qual è una delle novità
interessanti di Sanremo? Lionel Hampton che riadatta al vibrafono i motivi in
gara, mettendoci del suo.
Mentre di lì a poco gli studenti
diventeranno i protagonisti della scena, Johnny Dorelli porta la successo ‘La farfalla impazzita’, una canzone di Lucio Battisti.
‘Tu mi fai girar, tu mi fai girar come una bambola’, è un verso della canzone ‘Bambola’ cantata da Patty Pravo. In primavera la
canzone resta per settimane in testa alle classifiche dei dischi più venduti.
Arriva la grande estate di Franco
IV e Franco I con ‘Ho scritto t’amo sulla
sabbia’ e di Riccardo Del Turco con ‘Luglio’.
Le due canzoni più che un tormentone, sono un piacevole sottofondo che dura nel
ricordo per parecchio tempo anche se i
loro interpreti usciranno ben presto di scena. I testi delle due canzoni sono
ancora nella memoria di molti a distanza di tanti anni, così come i
motivi.
Paolo Conte attraverso la voce di
Celentano fa centro con ‘Azzurro’ e
Caterina Caselli vince il Cantagiro. La
Caselli qualche anno prima a Sanremo
aveva cantato ‘Nessuno mi può giudicare’,
che anche anni dopo, in parecchie conversazioni private, farà piangere nel
ricordo molte persone. (In particolare un ragazzo che frequenta il
ginnasio e ha litigato col padre).
1.
Quando Sanremo inizia la sua
lunga, tormentata ed anche trionfante storia,
siamo nel 1951, la televisione non è così presente in tutto, come lo diventerà.
La radio è l’unico mezzo per ascoltare la musica. Il juke-box, che pure
diventerà uno di principali diffusori di musica e mezzo ultramoderno di
comunicazione sociale, non lo conosce nessuno. E la RAI attraverso la radio
organizza il primo festival di Sanremo. C’è l’orchestra del maestro Angelini
che suona, e ci sono i cantanti che orbitano nella sua equipe: Nilla Pizzi,
Achille Togliani, il duo Fasano, ed altri.
Nilla Pizzi con “Grazie dei fiori” vince su tutti e
venderà della sua canzone 36 mila copie. Un record assoluto. L’affare
discografico è ancora di là da venire. È solo nel 1960 che si venderanno 300
mila copie di ‘Romantica’ e bisognerà
aspettare il 1964 per arrivare al vero e proprio boom: le 860 mila copie di ‘Non ho l’età’ della cantante Gigliola
Cinguetti.
1.2.
Annarita quando partecipa alla manifestazione canora più importante
d’Italia ha poco più di vent’anni. Il diploma di maestrina che ha conseguito
anni prima è solo un pallido ricordo. Ma le poesie, che continua a scrivere in gran segreto, le
tiene ben conservate nel cassetto più nascosto di casa sua. Le serate
continuano a impegnarla su tutta la riviera romagnola e non le lasciano il
tempo di riposarsi. Ma allora, come oggi, c’è qualcuno che le dice di battere
il ferro finché è caldo. E infatti partecipa a Castrocaro e vince. La canzone
‘Quando dico che ti amo’, portata al successo proprio partendo da Sanremo,
diventa addirittura un film con lei protagonista, il massimo.
Invece, Marisa ha giocato nella nazionale giovanile di pallacanestro.
Ma la canzone è una passione più forte e così, mentre ancora va a scuola,
frequenta il terzo anno di ragioneria, si
fa conoscere con il concorso ‘voci nuove’ che viene organizzato dalla
Fonit Cetra. Marisa ha un grande desiderio di finire subito la scuola di
ragioneria che poi non le interessa tanto e invece intraprendere gli studi per
imparare le lingue, in primo luogo l’inglese. Per lei è un modo per conoscere e
comprendere altre esperienze musicali fuori dall’Italia e allargare il suo
orizzonte.
Giuliana ha molti interessi. Ha studiato e praticato danza classica,
poi è passata al disegno, un suo sogno è quello di diventare pittrice e, infine
è stata anche indossatrice. Il fisico
c’è, la voglia pure e allora si è detta
perché no? C’è stato però un suo ammiratore nonché estimatore delle sue doti
canore che le ha procurato all’istante un contratto discografico. I primi
successi sono nati subito, ha cantato anche della canzoni del duo
Mogol-Battisti. Divide il suo impegno tra apparizioni televisive, qualche
partecipazione a programmi più impegnativi come attrice e la sua grande voglia
di cantare.
Anna la trovi in molti
spettacoli, piccoli spettacoli, della provincia tra la Lombardia e l’Emilia. Il
suo debutto lo deve a ‘Biancanece e i sette nani’ organizzato da una
associazione teatrale di Cremona. Quando partecipa al concorso di Castrocaro il
famoso presentatore Mike Buongiorno la sceglie come valletta per il suo grande
successo televisivo la ‘Fiera dei Sogni’. Da quel momento è un crescendo di
impegni e di successi. Vince il Festival di Zurigo, si classifica quinta la
festival di Sanremo, partecipa al Disco per l’Estate e si afferma al I° Oscar
Nazionale della Canzone. [Scusate se è poco].
Antonio ha origini corse ma è nato in Madagascar. È un valente
ingegnere che ha pianificato talmente bene il tutto. In pratica sta sfruttando
il suo momento, la sua celebrità con una canzone particolare.
Ha percorso tutta l’Europa per lanciare la canzone popolare con il ritmo dei blues. In Italia ha partecipato a
Sanremo con la canzone ‘Pietre’:
“Se sei bello ti tirano le pietre/
se sei brutto ti tirano le pietre/
qualunque cosa fai,
Antonio suona molto bene la
fisarmonica a bocca e anche la chitarra.
È prevedibile che sfruttato il suo momento di popolarità egli torni a fare
l’ingegnere che è la sua attività principale. La sua incursione nel mondo della
canzone è un momento giocoso e divertente della sua vita e del suo carattere.
In questo periodo importiamo
dall’America la moda del disco di vinile. Lì, l’esplosione del rock and roll grazie ad Elvis Presley
era già in voga da qualche tempo, e i dischi sono il veicolo che rendono
democratico l’ascolto della musica popolare. La musica si può ascoltare
dappertutto, gli innamorati affidano alle canzoni i loro messaggi, si genera un
nuovo e ricco settore dell’economia.
Il disco diventa un articolo di
grande consumo. Se prima un successo si indicava con decine di migliaia di
copie vendute, in questo periodo il successo è misurato con il sorpasso del
milione di copie vendute.
Incontri 1.
Michael incontra Don una mattina di febbraio. Viene dalla Francia, è un
irregolare, la sua vita è piena di mistero. Don capisce che si intende di
musica come lui perché lo guarda negli occhi, non ha bisogno di altro. Michael
ha studiato il pianoforte fin da
bambino, aveva appena tre anni. Ha
scritto fino al momento in cui incontra Don più di duecento canzoni. La
prima canzone che ha scritto ha per titolo ‘Michael’, un inno a se stesso, un
modo per dichiarare di esistere o un semplice regalo visto che gli altri non si
muovono a farglieli? Tappa numero due, impara a suonare anche la chitarra;
tappa numero tre, comincia a vivere come un barbone, dorme per strada, i ponti
della Senna sono un classico a cui non si sottrae. E poi comincia a fare il
cultore dell’autostop, gira il mondo in questo modo, un vero professionista. La
chitarra sempre dietro, naturalmente. È un periodo no, e a Parigi fa freddo
quando parte in autostop per Roma. Ma incontra persone poco disponibili e che
fanno piccoli tragitti di avvicinamento alla meta. Deve fare l’elemosina per
mangiare, suona con la chitarra con il piattino davanti, ma riceve più sputi e
qualche calcio che soldini. Due volte durante il tragitto lo portano in galera:
una volta litiga con un vigile urbano perché non vuole spostarsi dal
marciapiede intralciando l’entrata di un negozio di pellicce; e un’altra volta
viene sorpreso a rubare due banane in un negozio di frutta. Don è un ribelle
nato, ha inciso diverse canzoni ed ha avuto un discreto successo di pubblico
con entrate in classifica e vendite di non poco conto.
La mattina in cui si incontrano per caso, Don è a Roma per un contratto
cinematografico, deve partecipare come attore ad un film, Michael è appena
sceso da un’auto che gli ha dato l’ultimo strappo, è pieno di sonno. Don lo
porta al bar, poi nel suo stile lo invita a suonare qualcosa. Appena comincia a
suonare il volto di Don si illumina, il ritornello della canzone di
Michael parla di una bambina che fa no,
no, no.
Escono dal bar, Don appoggia amichevolmente la mano sulla spalla di
Michael e gli sta dicendo che potrebbe andare con lui a Milano. Non si riesce a
sentire bene che cosa risponde Michael, ma il loro destino è un po’ segnato.
Uno avrà qualche successo in Italia poi tornerà in Francia. L’altro resterà un
irregolare e un ribelle: scriverà canzoni, farà l’attore, sceneggerà fumetti e
vivrà libero.
‘Vola colomba’ e ‘Buongiorno
tristezza’ sono due tra le tante canzoni che tracciano le linee della
nostra tradizione melodica e che hanno tanto successo ormai dagli anni
cinquanta. Gli ingredienti per canzoni come queste sono: uno stile tipicamente
italiano, moduli della canzone popolare e dell’operetta e leggero influsso che
proviene direttamente dall’America giunto a noi nel dopoguerra. I più legati a
questo genere di canzoni sono gli
emigrati italiani all’estero. Attraverso le note delle canzoni italiane
rinverdiscono un legame con la Patria che hanno lasciato per cercare un lavoro
e un futuro migliore per i loro figli.
Dalida sta parlando con Richard: “Sai qual è la canzone che ogni anno,
puntualmente, raggiunge quote di vendita che nemmeno te lo immagini? Bè, è
Bianco Natale. In tutto il mondo, nelle sue varie traduzioni, questa popolare
canzoncina è il maggior successo discografico che esista oggi”.
Richard la guarda, ha un bicchiere in mano, non si sente più tanto
lucido. I due sono seduti su un divano. Poi le chiede: “Ma in Italia la
situazione com’è?”
Dalida si passa la mano nei capelli e risponde: “Da quello che so io, e
lo so perché me lo ha detto un mio amico discografico, in Italia l’anno scorso
sono stati venduti 32 milioni di dischi. L’80% in quarantacinque giri e il
rimanente in trentatre.” I due stanno zitti. Poi è Dalida che riprende: “Questo
mio amico mi ha detto anche che il record delle vendite di dischi all’estero
tra i cantanti italiani lo detiene Emilio Pericoli. Al di là ha venduto dischi
in tutto il mondo. Pensa, in America lo chiamano mister Al di là, e un successo
commerciale come il suo non è roba da poco. Certo ora c’è Modugno che ha già
venduto cinque milioni di dischi con ‘Nel blu dipinto di blu’.”
Richard vorrebbe farle qualche avance o almeno vorrebbe essere più
carino, ma le gambe e la mente sono bloccate dall’alcool. È passato solo un
anno fa quando D. ha subito il trauma della morte di Luigi. Si sta appena
appena riprendendo. È un po’ magra ma ha conservato il suo fascino femminile
intatto.
Le origini di Dalida sono calabresi ma è nata in Egitto, al Cairo. La
sua prima passione è il cinema e infatti, appena eletta miss Ondina, vola a Parigi. Tenta
l’avventura ma non le va bene. Piccole parti, qualche canzoncina. Poi qualcuno
la nota, le fa fare un’audizione. Si scopre la sua voce. Contratti discografici
e successi in radio e in televisione. Incide la versione francese di Guaglione.
La sua fama giunge in Italia, e continua la scia luminosa. Poi l’incidente di
Sanremo con il suicidio di Luigi.
Dalida guarda Richard che continua a non muoversi. Pensa di prendergli
la mano. Poi è Richard che le dice piano: “Sai che sei una vera donna?”. Lei si
alza, lo prende sottobraccio e se ne vanno insieme.
I soldati inglesi durante la
seconda guerra mondiale andavano matti per questa bambina che parlava e cantava
attraverso la radio. Petula allora aveva una vocina sottile, alla radio leggeva
le letterine per lo zio che era sul fronte africano, poi cantava canzoncine dolci e leggere. I soldati
ascoltavano estasiati immaginando di essere suo zio.
Passato qualche anno le chiesero
di fare alcune serate in Francia. Una volta lì, le proposero di esibirsi
all’Olympia di Parigi. Il teatro le metteva paura, quel teatro in particolare,
un fiasco e addio sogni di gloria. Petula accettò e vinse la sua scommessa, il
successo fu travolgente.
Ma il grande successo non ha
sconvolto la sua vita. Concilia benissimo il suo essere la signora della
canzone internazionale, i suoi dischi sono primi in classifica in tutto il mondo,
e l’amore infinito per Catherine e Barbara le sue bambine, nonché per il loro
papà, Claude, l’uomo della sua vita.
Bollettino n. 2
Il Rhythm and Blues arriva anche
a Sanremo. Per presentarsi sceglie i panni di Wilson Pichett, che ottiene un
grande successo dimostrando di essere un
valido rappresentante del genere.
Il Rhythm and Blues come genere
musicale ha origine dai neri d’America. Blues è un sostantivo che significa
malinconia, tristezza, depressione, l’antica forma di espressione dei neri
nelle piantagioni di cotone che cantavano la loro condizione di emarginati e di
schiavi, le condizioni dolorose dello stato di schiavitù.
Il genere poi si sarebbe staccato
dal Blues diventando Rhythm and Blues e quindi autonomo e influenzando a sua
volta altri generi come il Rock and Roll, la musica Beat e il Twist.
Aretha Franklin e Steve Wonder
tra gli altri propongono canzoni di questo genere riscotendo un successo in
tutti il mondo e allargando i confini dello stile.
La risposta alle mode importate
dall’estero, ritmi frenetici e veloci
tanto da togliere il fiato, la musica psichedelica e tutto il resto, viene dai
cantanti moderatamente melodici. Essi fanno parte di una tradizione che fa
riferimento alla romanza dell’ottocento, e parecchi hanno preso a modello
proprio alcuni autori classici dell’ottocento.
Lo stile è moderato ma la trama è
la versione giovane e aggiornata, ai
tempi nostri, della eterna melodia che
riscalda i cuori di chi ascolta, ed ha un suo pubblico che non muore mai. Anche
alcuni successi internazionali danno credito a questa situazione. In Italia
Orietta Berti, Gigliola Cinguetti, Massimo Ranieri e Wilma Goich, tra gli altri, ne sono gli interpreti fedeli
e puntuali.
Sperare non costa niente. Ogni
casa discografica in questo momento ha un suo vivaio di giovani da cui prendere
per farli diventare i cantanti di successo di domani. I giovani intanto sono
affascinati dal mondo della canzone e sono tantissimi quelli che si presentano
alle varie manifestazioni canore organizzate in giro per l’Italia. La loro
speranza è quella di emergere. Ognuno cerca un genere nuovo che si differenzi
dagli altri e la ricerca a volte diventa incessante, non si ferma mai, cambiano
genere di canzoni per riuscire a dire quello che hanno da dire. Pochi riescono
ad affermare la propria personalità e a durare nel tempo, altri invece sono
stelle che magari brillano magari per una sola stagione, poi ricadono
nell’anonimato.
Gabriella si rivela al concorso di canzoni della riviera Adriatica.
Partecipa a varie gare per dilettanti e sempre viene premiata fino ad ottenere
un contratto con una nota casa discografica. In una sala di ballo per giovani
ottiene una scrittura come Cantante della Domenica. Su questa scia la RAI la
invita a partecipare ad un concorso di
voci nuove.
Alcuni esperti di musica leggere prevedono per lei una brillante
carriera artistica. Lei un po’ ci crede
un poco no. Dice a se stessa e agli altri che il suo futuro è tutto da
scoprire.
Marzio e Klaus non si sono mai conosciuti.
Sono giovani cantanti di belle speranze e tutto fa prevedere per loro
una carriera fulminate [o magari è solo un’illusione, chissà?].
Marzio è un grande appassionato della musica americana. Per
perfezionarsi si reca a Detroit e lì esordisce scegliendo per l’occasione un
nome americaneggiante. Quando torna in Italia ha una preparazione musicale da
far invidia, suona due o tre strumenti e dirige benissimo una piccola
orchestra. Forma un complesso e si esibisce nel programma “Settevoci”. Subito
incide un quarantacinque giri ed è pronto al grande salto nel mondo dorato
della musica leggera.
Klaus è uno studente che frequenta l’Università a Milano. Ha l’hobby
del giornalismo e comincia a scrivere su un settimanale di musica leggera.
Quindi frequenta per lavoro i luoghi della musica e segue molti concerti. Ha un
aspetto gradevole e qualche volta lo scambiano per uno degli artisti che si
deve esibire. Non ha mai provato a cantare, ed è il direttore del suo giornale
che lo porta una mattina a fare un provino in una casa discografica. Il suo genere
preferito è il folk americano. È bravo e all’istante gli fanno firmare il primo
contratto per un disco da fare subito.
Siamo alla metà degli anni
sessanta quando anche in Italia esplode il fenomeno dei complessi musicali. I
modelli sono alti, inarrivabili, del tipo “Beatles”, “Rolling Stones”, in
pratica gli inventori della musica beat.
La composizione strumentale dei
complessi italiani è ben definita: chitarra ritmica, chitarra solista, chitarra
basso e batteria. Le voci quasi sempre sono degli stessi strumentisti. Alcuni
complessi hanno il solista che non suona nessuno strumento, ma sono in pochi.
Il coro è fondamentale, fanno da contrappunto al solista, spesso le parti
corali della canzone sonno le più importanti, quelle più valide musicalmente,
le più orecchiabili e che vengono ricordate e cantate più spesso.
A differenza di alcuni complessi
stranieri che hanno esportato il genere il tutto il mondo con un successo senza
precedenti, i complessi italiani imitano quelli più famosi d’oltralpe, copiando
le caratteristiche musicali, quasi sempre anche gli atteggiamenti. Certo le
eccezioni ci sono, ma sono poche.
Non è stato mai fatto un calcolo,
ma in quegli anni il numero dei complessini musicali è talmente alto che a
farlo verrebbe fuori una cifra da
capogiro. Si cominciava così: due amici con la passione della musica e che
ascoltavano i Beatles o i Rolling Stones. Si cercava un terzo e poi un quarto.
Ognuno con il suo strumento, tre chitarre e una batteria, si cominciava a
strimpellare, poi si imitavano gli stranieri ed era fatta.
Se si calcola che in media in un
comune di ventimila abitanti almeno una ventina di complessini ci stavano se
non di più, e che ogni complessino contava tra chi suonava e chi organizzava
una decina di persone, e poi si moltiplica il tutto per i cinquanta milioni di
persone che c’erano in Italia, aggiungendo che nelle città grandi i gruppi
erano di più, si può dire che l’Italia dei complessi sia stata una delle più
potenti aggregazioni di quegli anni, quasi quanto la chiesa e il partito
comunista, solo che loro non lo sapevano.
I primi a mettersi insieme e
formare un complesso scelsero un nome che era un programma: ‘i Ribelli’. Partecipano al festival di
Sanremo e lì ebbero una discreta affermazione. Intanto incisero alcuni dischi
sotto l’etichetta del ‘Clan di Cementano’,
facendo parte del Clan. Poi si staccano e passano ad un’altra casa
discografica. I loro dischi sono successi assicurati. Ogni manifestazione di
musica leggera che si fa in Italia ha ‘i Ribelli’ tra i partecipanti e tra i
protagonisti.
Uno dei componenti si chiama
Demetrio Stratos. È di origine greca ma ben presto si trasferisce in Italia per
studiare architettura. E per dedicarsi alla musica. Inizia suonando il piano,
ma ben presto abbandonerà ‘i Ribelli’ per fondare gli ‘Area’ e dedicarsi
esclusivamente alla ricerca vocale. Ha una forza vocale eccezionale, ma lo
distinguono anche la sua estrema generosità e l’audacia dei suoi interventi
sonori. Risultato: entra direttamente nell’avanguardia musicale. Tournèe,
festival, dibattiti: il significato della voce nelle civiltà orientali e
mediorientali. Ormai frequenta l’opera di John Cage, i testi di Nanni
Balestrini e tanti altri. Sul piano internazionale è una realtà importante,
collabora anche con Andy Warhol. Continua incessantemente la sua ricerca sulla
poesia fonetica, inizia un percorso che lo deve portare a liberare la voce da
qualsiasi dipendenza dalle tecniche per restituirle lo spessore che ha perso.
Mette in evidenza il collegamento del linguaggio con la psiche e la connessione
con i suoni emessi dalle corde vocali, considerate un vero strumento musicale.
Il suo canto fa saltare tutti i registri, nell’estremo acuto raggiunge i 7000
Htz. La monodia classica è spazzata via da triplofonie e quadrifonie, dalle armoniche talmente chiare da costituire
da sole delle vere e proprie micro-orchestrazioni senza alcuna amplificazione
tecnologica. Muore per una leucemia a trentaquattro anni, a New York.
I Dik Dik sono cinque ragazzi,
amici d’infanzia. Lunghissime serate a parlare di musica e ad
ascoltarla. A ripetere mentalmente i passaggi delle canzoni più famose dei
Beatles e di altri complessi stranieri. Poi cominciano a prepararsi ma ancora
non hanno bene in mente che cosa faranno, come lo faranno e dove lo faranno.
Ognuno prende lezione dello strumento che ha scelto di suonare. Diventano
bravini, scelgono il nome e si presentano al pubblico, si lanciano. Incidono il
loro primo disco. Poco dopo arriva la canzone Sognando California ed è il
successo.
Augusto ha una voce strana. Se pensi che quella voce potrebbe cantare
sei fuori strada. Non c’è una base, è troppo intrisa di inflessioni dialettali.
Ma è autentica e soprattutto è sostenuta dalla passione. Augusto si
esprime sia con la musica che con la pittura. Vuol portar fuori il disagio di
una generazione in crisi di identità: nella società c’è ancora un’impostazione
ipocrita e perbenista delle cose, una religione
che occulta e che nasconde. Poi,
Augusto, sente il peso delle grandi tragedie dell’umanità, prima fra
tutte quella dell’olocausto. Le sue poesie, le sue canzoni e i suoi quadri,
questo dicono, questo cercano di mettere fuori:
“Come potete giudicar/
Come potete condannar –
In ciò che noi vogliamo Dio è risorto/
Nel mondo che faremo Dio è risorto.”
In questi versi di canzoni di Augusto c’è tutto il suo mondo ma anche
quello di milioni di altri giovani. Il rifiuto di essere giudicati e la volontà
di cambiare il mondo, di rifarlo meglio.
Tutto inizia con i Beatles. Sono
quattro giovani inglesi di Liverpool con i capelli lunghi. La musica che
scrivono è una novità assoluta. Il ritmo è indiavolato ma trascina il pubblico
dei giovani, piace da impazzire, stordisce tanto da diventare il fenomeno del
momento. La moda parte dall’Inghilterra ma ben presto il genere Beat si afferma
in tutto il mondo.
È un modo per essere
anticonformisti, l’ideale della vita libera, della ribellione a concezioni e
comportamenti del passato. I giovani seguono il genere Beat perché ci credono,
perché vedono nel genere musicale l’espressione di quello che hanno dentro ma
che non riescono ad esprimere in un altro modo.
Pian piano, non solo i
giovanissimi ma anche i più scettici, in
qualche modo, entrano in questa nuova
concezione della vita, la capiscono, e se spesso non l’approvano non riescono
ad essere drastici tanto da rimuoverla.
Il fenomeno beat nasce in
Inghilterra, ma poi gli americani se ne appropriano e prendono loro
l’iniziativa diffondendo quelle che sono le ultime elaborazioni del genere, la
musica psichedelica e la moda Hippy.
Viene il periodo del declino
della canzone napoletana. Dopo anni di successo travolgente in tutto il mondo,
di grande popolarità, di rappresentanza, la dimensione non è più neanche
nazionale ma cittadina. Confinata solo nella cerchia della città. La moda della
musica straniera l’ha prepotentemente sloggiata dal mercato, che non è più
quello di una volta.
Certo sono rimasti un gruppo di
quelli di ferro a rappresentarla ancora bene, con qualità. Sergio Bruni,
Aurelio Fierro, Mario Abbate, Nunzio Gallo, questo il poker.
Ma ci sono dietro ancora giovani
promettenti che sono appassionati della musica napoletana e che sono fieri di
rappresentarla e non la tradirebbero mai.
Il napoletano non vive senza la
sua canzone, la stessa che orgogliosamente rappresenta agli occhi del mondo
ancora, forse per poco, la musica italiana tutta.
Nunzio, Gloria, Maria e Aurelio.
(Nunzio nel tempo libero si interessa di arte. La sua
grande idea è quella di mettere su una galleria d’arte una volta finita la carriera, la sua voce non
può restare potente per sempre. Neanche sa se
può tornare alla lirica che ha abbandonato giovanissimo per la musica
leggera e soprattutto non sa se lo avessero di nuovo accettato, ora che aveva come
dire tradito. La colpa era quella di
essere passato alla canzonetta e ora che andava cercando, ma che se stesse tra
i suoi pari, tra i suoi simili.
Però gli studi, quelli fatti al
conservatorio di S. Pietro a Maiella li aveva ancora ben impressi in mente, gli
erano serviti, li aveva applicati anche nella canzonetta. Ma poi, quale
canzonetta? LA CANZONE NAPOLETANA NON È AFFATTO UNA CANZONETTA. SMETTIAMOLA DI
DIRE STUPIDITÀ.)
“Guagliò” dice Gloria con il suo accento bolognese che non è riuscita a
perdere, “ canta mo’, che ti va ancora molto bene, e poi basta con questi
discorsi sul futuro che ce fanno solo perdere tiempo”. Poi continua: “La mia
più grande voglia è fare la casalinga, fare la spesa, preparare da mangiare,
parlare con i figli”.
Maria se ne sta lì, in ascolto, lei non ha mai parlato molto. Certo di
cose ne avrebbe da dire, anche su questo momento malinconico che stanno attraversando i suoi tre amici più intimi.
Per lei Tuppe tuppe marescia’ è stato tutto quello che erano i suoi desideri in
campo artistico, lei, se dipendesse solo da lei, si fermerebbe volentieri. Però
le escono altre parole dalla bocca : ”Ma che è tutta questa malinconia?
Ricordatevi che la canzone napoletana nun po’ muri’”.
“Brava” dice Aurelio. E continua: “È chello che penso pure io. O’ fatto
è che murimme nuie. La nostra carriera dovrà pur finire una volta, non possiamo
continuare in eterno. Ma non vi preoccupate, per voi ci sarà sempre libero il
tavolo all’angolo nel ristorante che aprirò”. Lo dice con il suo sorriso
contagioso, il sorriso dello scapricciatiello che tutti hanno nel cuore. Il suo
sogno è semplice: aprire un ristorante nella sua città, ‘ ma tu vulive a pizza, a pizza, a pizza, a
pizza e niente cchiu’.
Il Festival della canzone
napoletana nasce nel 1952, appena un anno dopo il festival di Sanremo.
Il festival è prestigioso,
partecipano i maggiori cantanti nazionali che si cimentano con il napoletano, e lo fanno con bravura e
maestria.
Le canzoni del festival tracciano
la linea che separa il vecchio dal nuovo, trovando una sintesi perfetta nel vecchio
della tradizione e nel nuovo della canzone napoletana. In pratica, il vecchio
si rinnova per non risultare antiquato e il nuovo tiene conto della tradizione
in maniera originale, per non disperdersi e abbandonare del tutto il passato
risultando alla fine incomprensibile.
Il festival ebbe molta fortuna
fino a quando fu organizzato dalla RAI. Quando la direzione passò agli enti
privati, finì per diventare solo un evento, senza la partecipazione del meglio
dei cantanti nazionali. Si chiuse nella sua napoletanità. E pensare che nel ’64
avevano vinto il duo Ornella Vanoni e Domenico Modugno, con la canzone ‘Tu si’ na cosa grande’.
Castrocaro Terme. La canzone
tira, l’industria discografica preme. L’idea di un Concorso nazionale di voci
nuove per la canzone, viene al direttore delle Terme di Castrocaro, in
provincia di Forlì, l’avvocato Natale Graziani. Non ci mise molto a
realizzarla, infatti nel 1957 si parte.
Pian piano la manifestazione
diviene sempre più importante ed è seguita da moltissime persone, tanto che nel
1962 ci fu un accordo con la società che gestisce il Festival della Canzone
Italiana di Sanremo. L’accordo prevede che i primi due classificati al festival
di Castrocaro sarebbero andati di diritto, saltando le selezioni, al ben più
ambito Festival di Sanremo.
La cura dell’organizzazione
diventa sempre più complessa e meticolosa. I discografici ci mettono la manina.
A dirigerlo viene chiamato Gianni Ravera che sarà coadiuvato dal gruppo
editoriale Mondadori.
Giungono sul palcoscenico del
Padiglione delle feste delle Terme solamente dieci finalisti. Hanno dovuto
superare una lunga serie di selezioni provinciali e regionali, poi ancora una
serie di semifinali e infine una pre-finale riservata solo ai discografici.
Finalmente la finalissima, che viene trasmessa dalla radio e dalla televisione,
ogni anno, tra settembre e ottobre. La scelta del vincitore non è meno
meticolosa. Fino al 1961 il vincitore era uno solo. Dal 1962 i vincitori sono
due e sono scelti da cinque giurie: due esterne presiedute da notai. Poi da una
giuria popolare composta da cinquanta spettatori estratti a sorte dalla sala;
da una giuria tecnica composta da editori, discografici, maestri di musica
leggera; da una giuria di giornalisti scelti tra gli inviati dei quotidiani e del
periodici.
Lo spettacolo viene prima. In
effetti c’è posto per tutti. Canzone e altre forme di spettacolo si
contaminano, c’è scambio, stelle della rivista e del palcoscenico sono anche
delle validissime cantanti, Delia Scala e Marisa Del Frate sono gli esempi più
significativi. È l’era della spettacolarità, basta avere qualcosa, saper
intrattenere il pubblico, suscitare interesse in chi ti sta di fronte. E non
importa se sei grande o piccino, se sei un raffinato interprete musicale o un
comico, un imitatore o una soubrettes, se sei un maestro d’orchestra o un
attore o un autore di riviste e di commedie.
Anche in Italia inizia il momento
di quelli che non esibendosi sono allo stesso modo importanti, quelli che
coordinano, che sostengono gli altri, che devono interpretare: i presentatori.
Essi sono altrettanto famosi, popolari e noti come un cantante o un divo dello
spettacolo. Tutti personaggi dello spettacolo che però ruotano attorno al mondo
della canzone che fanno da cornice… che danno un valido contributo alla Canzone
e alla discografia che ci sta dietro.
(Quando Lionel Hampton si
innamorò del ‘Piccolo coro’ dell’Antoniano.)
Lionel partecipa come ospite
d’onore al Festival di Sanremo del ’68. Il suo strumento è il vibrafono e le
sue interpretazioni sono celebri in tutto il mondo.
Lionel è nato nel Kentucky, a
Luisville (USA). Il suo papà canta e suona il piano, lui vive con i nonni a
Chicago, ed è lì che passa la sua infanzia e la sua giovinezza. Ha la passione
della musica e molto giovane debutta con la ‘Defender’s News
Boys Band’ suonando il tamburo. È
bravo. Viene subito notato. Si trasferisce a Los Angeles per suonare con la ‘RebSpike’s Sharp’s and
Flats’. Nell’ambiente il suo nome
circola sempre di più. È una sera di settembre quando il grande Benny Goodmann
che si trova a Los Angeles va ad ascoltarlo in un locale. Vuole accertarsi di
persona della sua sbandierata bravura. Alla fine lo avvicina e lo invita ad
unirsi al suo gruppo. Lionel esita, non sa che fare, vorrebbe continuare con i
Reb, vorrebbe fare altre esperienze, non sa. Poi si decide, nel 1936 raggiunge
Goodmann a New York. Ed è qui che gli si aprono le porte del paradiso. Debutta
con altri complessi, comincia a comporre canzoni, viene chiamato al Cotton Club
per suonare con Louis Armstrong. Suonando per la prima volta con il grande
Louis suona il vibrafono. È un successo. La sua carriera è tutta in discesa,
Lionel è una celebrità mondiale. Non si contano le sua partecipazioni a film e
a trasmissioni televisive. Si esibisce alla presenza di tre presidenti degli
Stati Uniti: Truman, Eisenhower, Johnson.
La sua vocazione musicale è il
gioco, la sorpresa, il divertimento. Ma soprattutto lo swing, un elemento
musicale che non si può scrivere né riprodurre.
Lionel è l’uomo che ha portato il
vibrafono nel mondo del jazz. Per lui non esistevano le regole, e quelle che
c’erano erano fatte per essere superate. Una volta ad un concerto non ne voleva
sapere di chiudere. Per farlo smettere gli organizzatori gli staccarono la
corrente e lui, senza scomporsi, andò avanti ancora per un’ora senza amplificazione.
Quando Lionel arriva in Italia
per partecipare al Festival di Sanremo, per caso, ascolta in radio una canzone
del Piccolo coro dell’Antoniano. “Sono bravi”, pensa. Appena ha una mattinata
libera si fa portare a Bologna. Lì, stringe la mano a Mariele Ventre. Mariele è
l’animatrice del coro, la direttrice. Il coro è formato da 60-65 elementi la
cui età varia in generale tra i cinque e sei anni. Il coro prova regolarmente
due o tre volte la settimana e si esibisce in varie occasioni, oltre alle
incisioni di dischi. Ma il grande pubblico lo conosce attraverso le apparizioni
che ogni anno avvengono durante Lo Zecchino d’oro. In questa occasione è il ‘Piccolo
coro’ dell’Antoniano che accompagna ogni concorrente durante la propria
canzone.
Il ‘Piccolo coro’ nasce in
occasione del primo Zecchino d’oro, a Milano nel 1959. Tre anni dopo, però, si
trasferisce a Bologna, trovando ospitalità presso i padri minori
dell’Antoniano.
L’atmosfera che si respira a livello
culturale nel convento dei Padri e le cure di Mariele hanno fatto una ottima
vigilanza sui bambini e così è stato possibile mantenere inalterata la loro
spontaneità e la loro freschezza. Questi bambini non sono affatto dei divi,
sono bambini che cantano per altri
bambini. La selezione per entrare nel coro è molto dura, nessuno deve
superare gli otto anni, qualcuno ha appena quattro anni.
Quando Mariele sa che il grane
Hampton vuole conoscere lei e ascoltare
il coro dal vivo è molto felice. Lo saluta con una calorosa stretta di mano: “Sono
molto onorata, signor Hampton”, gli dice. Poi gli presenta i bambini del coro
uno ad uno.
Bollettino n.3
I Giganti erano in quattro. La
loro canzone più famosa, ‘Tema’,
diventò una specie di tormentone. “Continua il tema Enrico Maria Papas”, diceva
uno di loro e arrivava una voce tanto improbabile che uno pensava subito - si è rotto il microfono. Poi ci si
chiedeva ma come fa a fare il cantante? Infatti era il batterista del gruppo
che il quel caso cantava. Dalla caverna si sentiva: “Io credo che l’amor…”.
Nei dintorni, poi, tre animali
fatti molto bene: una tigre, una pantera e un’aquila. Nell’ordine Mina, Milva e
Iva Zanicchi, tre grandi interpreti che oltre a cantare sapevano fare altro.
Recitare e stare sulla scena, ad esempio, era nelle loro corde.
Intanto i gruppi sceglievano nomi
come I Profeti, I Camaleonti, Le Orme, I Gabbiani, I Bisonti, I Corvi, Gli
Scooters, I Ricchi e Poveri. Il che non dice nulla di particolare sulla
fantasia delle scelte di quel periodo, se non che allora si sceglievano quei
nomi e basta (anche perché i nomi di allora erano i nomi di allora e i nomi di
adesso sono i nomi di adesso).
Nel 1969 il Festival di Sanremo compie diciannove
anni. Essendo nato nel 1951. Anzi, il lunedì 29 gennaio del 1951 alle ore 22,
rigorosamente per radio, per i motivi già noti.
Quello che per radio veniva
annunciato come il salone delle feste del Casinò Municipale, era un caffè
concerto abbastanza sguarnito, in effetti frequentato da signore anziane che ne approfittavano per passare la serata.
Per entrare dovevi sborsare la bella cifra di 500 lire, e la consumazione era a
parte.
Un palco con l’orchestra del
maestro Cinico Angelini. Due cantanti: Nilla Pizzi e Achille Togliani. Della
canzone vincente, ‘Grazie dei fior’,
cantata da Nilla Pizzi, si vendono trentaseimila copie che forse non sono poche. Ma i discografici pensano che
Sanremo non sia un affare.
Cambiano idea l’anno dopo, quando
sia il Festival che la canzone ‘Vola
Colomba’ finiscono su tutti giornali. Non si parla d’altro. Qualcuno legge
anche che è scoppiata la guerra in Corea. Ma allora i chilometri che ci
separavano dalla Corea erano molti di più.
E così sul palco del Casinò
Municipale ci vanno tutti i più grandi nomi della canzone. I dischi si vendono
e non si vendono, qualcuno bara sulle cifre, c’è chi le diminuisce per
capriccio, e chi le aumenta per pubblicità, ma le vendite sono quelle che sono
e che noi non sappiamo. Si sa invece, che la canzone ‘Romantica’ vende
trecentomila copie. Siamo nel 1960. Il record è questo. Passano appena quattro
anni e viene battuto. ‘Non ho l’età’,
cantata da Gigliola Cinguetti, vende ottocentosessantamila copie.
Una generazione di giovani
cantanti bussa alle porte di Sanremo. I vecchi cantanti dicono: “Ma questi giovani vogliono la nostra morte, per caso?”. Per
correttezza nessuno risponde. Intanto vincono (1970) Bobby Solo e i Minstrels
con ‘Se piangi, se ridi’. A
complicare le cose arrivano gli
stranieri che partecipano in massa al festival. I vecchi dicono: “Non se ne può
più!”. Ma non è finita, nel 1966 c’è l’ondata dei BEAT a complicare il già
difficile rapporto tra generazioni. In quell’anno si fa un po’ di confusione.
Bobby Solo esagera e si trucca come una ballerina (si diceva così a quel tempo)
e la televisione vuole escluderlo. Poi però la cosa rientra, anche perché il
cantante si strucca. La confusione però continua. La canzone di Celentano, ‘Il ragazzo delle via Gluck’, un vero e
proprio romanzo condensato, la nostra versione popolare e cantata dei ‘Ragazzi
della via Paal‘ (la tristezza della periferia che diventa città) viene
eliminata. È un brutto colpo che conferma un certo non so che di provinciale. Celentano, invece, gioisce. La sua canzone vende il
doppio della canzone vittoriosa di quell’anno, Dio, come ti amo, che
potrebbe essere una canzone trasgressiva o di chiesa a seconda dei punti di
vista, ma non è così.
Da quel momento, e per qualche
tempo, nessuno spera di vincere più il festival. Si pensa che chi non vince
vende più dischi. Quando si dice l’arte, restare negli annali del festival ma
con le tasche vuote è meglio del contrario?
Nel 1967 capita che vinca Claudio
Villa, ma su questa vittoria c’è l’indifferenza più completa. Non c’entra il
cantante e la canzone, si è suicidato Luigi Tenco, il vero vincitore è lui.
Mino è un ragazzo calabrese che ha studiato tromba e violino al
conservatorio di Reggio Calabria. La sera, insieme alla sorella Giovanna, si
esibisce nei locali e nei piano bar. Poi avviene il fattaccio: la sorella
Giovanna muore. Un terribile incidente stradale. Lui non vuole più
cantare, è sconvolto. I fratelli cercano
di convincerlo, lui è bravo, ha una bella voce, ma niente, della musica non
vuole più sentirne. Passa un anno. All’improvviso gli torna la voglia di esibirsi.
Va in Germania, forma con i fratelli un gruppo e la sua musica melodica
conquista le platee, diventa un divo. Si fidanza con una principessa
tailandese, è felice, la vita va avanti.
Con i suoi sei fratelli, il
gruppo si chiama I fisici. Vanno oltre che
in Germania anche in Inghilterra e in Svizzera.
Franco e Franco sono in vacanza a Ischia con le rispettive famiglie. Si
conoscono sulla spiaggia perché si ritrovano a guardare la stessa ragazzina.
Per un poco si guardano in cagnesco, poi ci sorridono sopra e intanto scoprono
di avere tutti e due la passione per la musica. Si mettono insieme a comporre e
a suonare. Si divertono abbastanza. Si scelgono il nome, si chiameranno Franco
IV e Franco I, da un giorno all’altro diventano famosi con la canzone ‘Ho
scritto t’amo sulla sabbia’.