La Campania e il futuro


Premessa
“Per via della cannella e della mirra che bruciano, la morte di una fenice è spesso accompagnata da un gradevole profumo. Dal cumulo di cenere emergeva poi una piccola larva (o un uovo), che i raggi solari facevano crescere rapidamente fino a trasformarla nella nuova Fenice nell'arco di tre giorni (Plinio semplifica dicendo "entro la fine del giorno"), dopodiché la nuova Fenice, giovane e potente, volava ad Heliopolis e si posava sopra l'albero sacro,«cantando così divinamente da incantare lo stesso Ra»”. 
A parte il gradevole profumo, evocare il mito dell’araba fenice è, anche oltre la ragionevolezza, un modo per mantenere ed alimentare la speranza di futuro della Campania. 

1.
Succede a volte che quando si dice la verità  per reazione si ha un  rigetto. È un po’ come il dolore  che si prova  quando si mette il dito nella piaga; alcuni,  per  risparmiarsi una presa di coscienza,  invece di capire accusano chi  tocca nel profondo e  si continua  a far finta di niente.  
Nel gennaio 2006 il giornalista  Giorgio Bocca pubblicò il libro “Napoli siamo noi”. Era un’inchiesta sulla città capoluogo ad appena un decennio, o poco più,   dal tanto sbandierato ‘rinascimento’.  Solo per ricordare, il fenomeno della rinascita era cominciato con l’elezione di Bassolino a sindaco di Napoli nel novembre del 1993 e coincise con l’inizio della cosiddetta seconda repubblica dopo l’era di tangentopoli. 
Nel libro, il decano del giornalismo italiano metteva in rilievo alcune questioni fondamentali:  per prima cosa  il declino di una città che  trascinava inevitabilmente tutto il territorio in una discesa infernale e senza scampo. Si trattava di un atto di accusa esplicito  che partiva dalla  preoccupazione che  non esisteva ormai in questi luoghi nessun rispetto per la legge. Il giornalista si poneva una domanda che nasceva da un profondo stupore: come era possibile che una società civile potesse vivere, e convivere, con 50 cosche camorristiche  in città  e 100 in provincia?  Tutto quindi era riportato al concetto di illegalità diffusa che, seppure mai detto esplicitamente, era il terreno di coltura di malavita e camorra. 
Le cose  prendevano  il via dal fatto che ci si trovava di fronte ad una società che tollerava tutto. Dal contrabbando di sigarette nei corridoi o appena fuori della questura o del tribunale, alla vendita di prodotti griffati contraffatti nelle vie centrali, per dire le cose minime che erano  sotto gli occhi di ogni passante. 
Nel libro si diceva che chi aveva provato  a contrastare tale situazione, era stato prima  invocato come persona giusta al posto giusto, ma poi era stato  subito emarginato come persona incompatibile con l’ambiente.  Si parlava del procuratore del tribunale di Napoli Cordova, uomo considerato intransigente, ma che era diventato incompatibile  quando aveva deciso di eliminare il contrabbando di sigarette. Per la verità aveva indagato anche  su vari scandali, da quello della truffa automobilistica fatta dalle assicurazioni con la complicità delle autorità governative, a quello della massoneria deviata sull’asse  Napoli – Roma, addirittura poi aveva deciso che sarebbe stata  la procura ad impugnare le sentenze contro i camorristi quando questi venivano assolti in modo poco chiaro. 
Il risultato di tutto ciò, comunque, fu che  il magistrato finì emarginato e abbandonato da tutti, anche dai suoi vecchi amici. 
La sintesi ultima era che la cultura dell’illegalità stava pervadendo tutto e tutti, una illegalità che era un misto di tolleranza e furbizia. La battuta del tassista che  le corsie preferenziali sono di chi le preferisce, alla domanda su che cosa servissero  visto che le prendevano tutti,   metteva  a nudo l’anima di un popolo ma anche le sue debolezze forti e ataviche. 
Il fatto che la situazione fosse peggiorata negli ultimi anni, veniva minimizzato da tutti gli intervistati. L’immondizia non era ancora un problema internazionale, ma già c’era nelle strade appena si usciva dal centro cittadino e diventavano cumuli  enormi appena si arrivava  nei ‘paesoni’, che sono delle vere medie città,  dell’hinterland. Bocca diceva ancora che aveva trovato la situazione molto peggiorata rispetto a un decennio prima. Tutti o quasi,  intellettuali e politici si risentirono; ci fu chi invocò la napoletanità come invenzione per mettere d’accordo la borghesia colta ed europea e la camorra sanguinaria e selvaggia. Un modo simpatico, creativo,  per continuare a sperare in chissà che e dire che “la borghesia napoletana era rimasta traumatizzata dalla rivoluzione del 1799 e dalla repressione sanfedista che ne fece la plebe napoletana, con strage di migliaia di persone e con un odio che arrivò a casi di cannibalismo”. Altri lo accusarono di essere in malafede o che non aveva usato strumenti di analisi più approfondita. Vero? Forse.
Eppure non tutto si poteva riportare sempre e solo alla città capoluogo. E le altre province campane? Cosa stava succedendo in una regione con la più alta densità abitativa della nazione? 
Altri libri su questo argomento erano andati anche più in profondità nel denunciare scandali e commistioni tra camorra e settori della politica, ma stranamente non erano stati accolti male dal mondo intellettuale e politico. Mistero. O forse, più semplicemente, in altri  libri non c’erano allusioni a responsabilità nella gestione del potere, non si faceva capire che chi avrebbe potuto fare qualcosa  non lo aveva fatto,  non si chiamava in causa chi aveva costruito un proprio sistema di potere un po’ tollerante un po’ no, sperando in questo modo di contrastare un cancro che continuava a produrre metastasi e ad ingrandirsi a dismisura. 
Spesso  è stato messo in rilievo, anche da autorevoli esponenti del mondo intellettuale e politico,  che quando si parla in termini così negativi di territori estesi  si deve sempre tener presente che non tutti i cittadini sono implicati, che ci sono gli onesti e i volenterosi e che non si può fare di tutta l’erba un fascio. Una cosa giustissima e ci mancherebbe che non fosse così. Basta solo, però puntualizzare, che nelle province la situazione in termini di illegalità è descritta anche peggio. Clan a Caserta o Salerno con diramazioni economiche impensabili, ha scritto Isaia Sales, esponente delle sinistra e collaboratore di Bassolino: “Non dimentichiamoci che la camorra casertana ha commesso il più alto numero di delitti politici rispetto alle altre consorelle”. E, ancora, Bocca: “La camorra in Campania è a macchia di leopardo: a Formia non si vede, ad Avellino si maschera dietro i politici, a Caserta è dominante ma divisa”. Insomma, il panorama dell’illegalità è descritto allo stesso modo dappertutto, seppure in forme diverse e sempre cangianti. In fondo, dove si è mai visto che l’illegalità e il delirio di potenza economica che sottende a tale fenomeno,  si ferma davanti ad ipotetiche ed immaginarie linee di confine?


2.  
Una decina di anni fa, invece, uno storico di professione, Francesco Barbagallo, aveva messo in luce, in modo documentato ed efficace, il sistema di potere dell’illegalità a Napoli e nelle province campane negli ultimi decenni del secolo scorso. 
Illegalità e potere politico avevano formato un blocco difficilmente districabile, “politici- camorristi - imprenditori”, una triade dai contorni poco riconoscibili, in cui non si evidenziavano soluzioni di continuità.  Barbagallo parlava di un sistema di potere costruito a partire dagli anni settanta in Campania; di camorra e mafia insieme negli anni ottanta; del terremoto del 23 novembre 1980 e del flusso di denaro con la ricostruzione; dei comitati di affari per le grandi opere mai realizzate e infine della corruzione politica che era ormai a livelli impensabili. 
Lo stesso storico metteva in luce come cent'anni prima, alla fine dell’800, sempre negli stessi luoghi, “la trasformazione dell'attività politica in gestione clientelare e camorristica della cosa pubblica era un fatto compiuto”.
Ora però, nel  93, non solo in Campania ma in tutta la nazione, sembrava che qualcosa di nuovo potesse finalmente nascere.  E tutti, ma tutti, ci abbiamo sperato.
Come sia potuto invece accadere che uno dei punti più bassi toccati  da questa regione si sia avuto proprio quando alla sua guida, secondo le previsioni, avrebbe dovuto esserci una classe dirigente con una visione nuova della politica e un nuovo modo di governare la società? È  un mistero. Ma solo per modo di dire.
Le analisi e le spiegazioni non mancano. Evidentemente i rapporti sotterranei e ferrei tra affari, malavita e gestione politica hanno solo subito un rallentamento fisiologico, di superficie. In realtà, messi in luce molto bene da altre pubblicazioni, sistemi nuovi e multiformi di illegalità con ramificazioni imprenditoriali di natura nazionale e internazionale sono diventati sempre più incalzanti e assoluti, fino a soffocare del tutto questi territori facendoli diventare palude e non solo in  senso fisico. 
Di fronte a tutto ciò, la nuova politica, con la parte di società che l’ha affiancata, di fatto una maggioranza, ha saputo solo opporre una sorta di dirigismo dall’alto. Pensando e gradendo  di non sporcarsi le mani. “La democrazia”, hanno detto in molti, “è un sistema politico mutevole vulnerabile”. Nella traduzione spicciola si può dire che quando manca una forma piena di  democrazia partecipata, cosa che più o meno succede ad ogni nuovo governo, è sempre più difficile per i cittadini   prendere parte alle  decisioni (assumere responsabilità, far sentire la propria voce) e, di conseguenza, anche  innovare la vita politica. Ne consegue che la mancanza della rappresentanza politica di fatto diminuisce la possibilità di controllare meglio le infiltrazioni, le pressioni e i ricatti della camorra sulla politica. Perché, è ovvio,  la  pervasività  della camorra  si manifesta ponendo  le sue ragioni sulle decisioni della politica 
Quindi ha agito anche in questo caso il solito male dell’individualismo meridionale? Chissa! 
Il dirigismo e l’ossessione del controllo centralistico,  che  all’inizio di una nuova  gestione politica riescono a dare e infondere speranza di salvezza, si sono tramutati, invece, attraverso il rigido criterio della fedeltà nella scelta di chi occupa i posti di responsabilità,   in un sistema chiuso. La fedeltà assoluta è stata in questi ultimi anni la ‘strada maestra’, sia in campo politico che in quello tecnico. 
I danni in pochi anni si sono visti: confusione tra indirizzo politico e gestione,  mancanza di ricambio di tutta la classe dirigente, accordi con l’opposizione che ad un certo punto smette praticamente di esistere.
Si arriva allora, anche senza volerlo, a sviluppare la concezione secondo cui l’apparire conta più dell’essere. Quando invece erano stati proprio gli strumenti concettuali della sinistra ad  avvisarci che lo spettacolo, l’evento, vanno bene se sono sostenuti dalla sostanza, se alla base, alle fondamenta  c’è la struttura che sorregge. “Per dire,  che la critica non è nell’aver fatto delle cose straordinarie, quanto di averle fatte senza curare le cose ordinarie”, è stato detto. Pubblicizzare i prodotti della regione con un ufficio  sulla quinta strada a New York, quando si arriva ad essere sommersi dall’immondizia, qualche problema lo pone agli occhi di chi osserva. 
E così si parte con i discorsi,  fatti da chiunque, che qui  l’intelligenza e la furbizia contano più della disciplina e dell’onestà.  Avviene di conseguenza che la maggioranza di chi vive al nord  non va per il sottile, non sa, non vuol sapere che le loro imprese apparentemente pulite sono foraggiate con i soldi della camorra. A loro interessa non vedere più sprecati i soldi per un sud che ha dimostrato di non essere in grado di sapersi gestire. La conclusione a cui arriva è: ognuno il futuro se lo faccia con le proprie mani. 
Il rischio però diventa  la concezione di un futuro migliore come vana speranza. 
Basterebbe forse dire che non è più il tempo di scommettere sul futuro. Molto meglio accettare la condizione che il futuro non esiste. Il futuro è ora, è in quello che si fa in questo momento. Il futuro è già tutto in una  nuova moralità, che esiste, è diffusa, ma deve trovare un catalizzatore. Il presente-futuro sta negli esperimenti di democrazia partecipativa che devono, per sopravvivere, essere accettati dal governo locale, e anzi, deve essere chi governa ad incoraggiare esperienze simili. Proprio quello che non si è mai fatto, che è stato sempre visto come fumo negli occhi da questa ‘casta dirigente’. Tanto che viene da pensare a molti  che se non si cambia il modo di far politica in Campania non ci sarà alcun futuro. O meglio. Il futuro è ovvio che verrà lo stesso, ma sarà un futuro intriso di presente. Il presente fatto di continuità dei sistemi di potere, cambiamenti di nome e non di sostanza, molta mediocrità nelle scelte e negli uomini, qualche eccellenza che non fa testo, tanto lavoro di uomini e donne, ma tutto  inutile. 
Il futuro è lo spazio ad un presente nuovo,  e così il mito dell’araba fenice può ritrovare  un senso.