Intervista a Enzo Spaltro di Francesco Di Lorenzo
Caro Spaltro, possiamo cominciare
questa intervista col discutere assieme il ricordo che Lei ha delle scuole che
ha frequentato? In complesso come le valuta?
Piuttosto bene, nonostante le arrabbiature e le frustrazioni
spesso inutili. Perché il mio ricordo della scuola è legato all’emozione
dell’imparare, al sentire che ci sono cose che non sapevo e che poi sapevo; è
legato all’incantesimo del vedere le speranze che si realizzano, ai pensieri
che diventano realtà; è legato al sentimento di me stesso che crescevo e potevo
progettare e prevedere il futuro. Tutto il mio ricordo delle scuole che ho
frequentato è intriso di questa meraviglia del futuro che qualcuno mi aiutava a
conoscere e costruire. È pieno della meravigliosa solitudine dell’imparare cose
impreviste e dell’improvvisa straordinaria rivelazione della realtà dentro e
fuori di me. Per questo valuto piuttosto bene le scuole che ho frequentato.
Lei ricorda un insegnante in
particolare della sua vita scolastica, e se sì, per quale motivo lo ricorda?
Ricordo due insegnanti in particolare: il maestro della
quarta e quinta elementare e il mio professore di filosofia della seconda e
terza liceo. Il mio maestro si chiamava Cicardi. Il nome non me lo ricordo più.
Si vestiva bene, e mi dava fiducia per questo. Io avevo otto anni quando l’ho
conosciuto e lui mi faceva fare delle strane cose, così a me perlomeno
sembravano. Però era vestito bene, aveva la cravatta e questo mi dava fiducia. Era
una persona seria. Non me lo ricordo che rideva. Me lo ricordo attento. Si
ricordava di me, delle cose che gli dicevo. Con lui avevo un nome. Lui mi aveva
detto che ero bravo e che scrivevo bene. Ed io me lo ricordo e se sto scrivendo
questo lo devo anche a lui. Mi chiamava Enzo.
Il mio professore di filosofia si chiamava (anzi si chiama
perché è ancora vivo e attivo) Dino Formaggio. Ci portava a fare delle gite. È
stato anche preside della Facoltà di Psicologia dell’Università di Padova per
molti anni. Io l’ho rivisto qualche volta. Da lui ho imparato sia le canzoni
partigiane, sia l’amore per la psicologia, sia la tendenza a fare da me.
Mi ricordo di
lui perché era giovane e cercava di fare il coetaneo e durante tutta la mia
vita io ho insegnato tendendo a fare il coetaneo dei miei studenti. Lui diceva
ad ogni studente di fare una lezione su un tema filosofico. A me toccarono
Martin Lutero e Baruch De Espinoza. La scelta fu casuale, la conseguenza no.
Due pensieri, Lutero e Spinoza, che mi hanno accompagnato sinora come capacità
di rivolta e come capacità di dissimulazione scientifica della mia propria
ideologia.
Ricordo le
discussioni con i miei compagni sull’idea di “sostanza” e di “attributo” in
Spinoza, e il viso sorridente di Dino Formaggio che circolava attorno a tutti
noi. Anche per lui il ricordo riguarda la fiducia che mi diede, facendomi fare
lezione. Ricordo l’emozione di essere dietro la cattedra, la paura di essere
sfottuto dai miei compagni, che invece sentitamente mi ascoltarono. E così cominciai
a sentire la mia voce, mentre parlavo agli altri. Avevo sedici anni e senza
accorgermene, stavo orientandomi ad insegnare anch’io.
Qualche tempo fa il professore
Cesare Scurati in un articolo scrisse che le emozioni e le relazioni hanno la
stessa importanza dei contenuti. E come si insegna italiano, matematica,
inglese, così forse sarebbe utile insegnare anche amore, odio, rivalità.
Secondo Lei di che cosa si tratta: di un segnale, di un’apertura o di una voce
inascoltata?
Non so.
Forse la distinzione di Scurati è quella tra processi e contenuti, in cui i
processi sono il modo e i contenuti l’argomento del comunicare. Si parla molto [e
poco si fa!] dell’imparare ad imparare e dell’insegnare ad insegnare.
Occorrerebbe incrociare i significati e parlare di imparare ad insegnare, oltre
che di insegnare ad imparare. Più che insegnare amore, odio o rivalità
occorrerebbe imparare a trattare queste emozioni. Il punto centrale, a cui
forse alludeva Scurati, è che oggi l’accento della pedagogia è passato dall’insegnamento
all’apprendimento e che i due fattori non sono né simmetrici, né contemporanei.
Certamente è importante considerare le emozioni come energia psichica.
Certamente è un segnale dare importanza alle relazioni, che sono i contenitori
di energia psichica verso gli oggetti d’amore dei soggetti. Non vi può essere
apprendimento senza oggetti d’amore. E questi ultimi svaniscono senza relazioni
che trasportano energia dei soggetti. Né è possibile alcuna trasmissione
(relazione, comunicazione, ecc.) senza soggetto. Chi impara è il soggetto e se
quest’ultimo non esiste, come può imparare? Il soggetto produce energia e la
convoglia verso oggetti d’amore che gli procurano benessere.
Io credo che per
passare da un’affermazione teorica, come quella sull’importanza delle
relazioni, a una deduzione operativa, occorre ricordare che l’allievo [cioè
tutti noi!] è un soggetto, cioè un progettista di benessere che usa la sua
energia psichica trasferendola su oggetti d’amore (interesse, aggressività,
ecc.). Così facendo costruisce realtà sociale e ricchezza mediante relazioni
che creano campi sociali, potere, cambiamenti e nuove relazioni per nuovi
oggetti d’amore (amici, nemici, ecc.), sino a un circolo virtuoso di produzione
di ricchezza psichica e di benessere soggettivo. Tutto ciò rinforza il soggetto
che produce sempre più energia e oggetti d’amore variabili, e che ha sempre più
bisogno di relazioni nuove, di processi e di modi diversi più che di contenuti,
di oggetti d’amore fissi e di relazioni, processi e modi noti, riconosciuti o
accreditati.
Sul supplemento di ‘Le Monde’ (di qualche tempo fa) dedicato alla pedagogia, si invocava il ritorno
all’immaginazione, alla creatività–spontaneità–espressività, come libera
estrinsecazione delle potenzialità umane, per contrastare gli eccessi del
sapere formalizzato, programmato, predeterminato. Oltre al chiederle che cosa
ne pensa, vorrei anche la sua opinione sul perché un’affermazione del genere la
facciano gli intellettuali francesi e non gli italiani. È un sintomo, vuol significare
qualcosa o è tutto normale?
Ma anche gli
italiani, oltre agli intellettuali di tutto il mondo occidentale, invocano da
anni il ritorno all’immaginazione e alla creatività. Però si tratta di
invocazioni farisaiche. Praticamente chi invoca vuole affermare se stesso,
vuole imporre se stesso, come si vede bene quando la creatività diventa
devianza. L’intellettuale è un ortodosso. Il resto è eresia. In Italia gli
intellettuali di sinistra invocano l’immaginazione, la spontaneità,
l’espressività, ma questo per loro stessi. Il deviante avversario politico
viene considerato scemo, matto ed eretico. Questo vale per gli intellettuali
della destra, del centro e della periferia. Non ci sono i cattivi che non
permettono ai buoni di esprimersi. Non ci sono i francesi che capiscono e gli
italiano no. Ci sono gli interessi, i privilegi, spesso più immaginari che
reali, di fronte a cui franano le idealità più raffinate. Il mondo diventa una
grande assemblea di condomini in cui lo scopo di ciascuno è evitare che si pianti
un chiodo sul proprio terrazzo o che si dipinga di blu un qualcosa che si
vorrebbe rosso. Il dominio non vuole creatività, vuole solo osservanza. E per
un piccolo privilegio non vale né immaginazione, né spontaneità. Pensate a
Carmelo Bene, a Fernando Pessoa, a Vincent
Van Gogh e all’infinita serie di devianti che ancora oggi non riescono
ad esprimersi.
La scuola ha una
grande responsabilità nella perpetuazione di questo modo di fare. La scuola
ortodossa, statale, centrale, dei concorsi, degli insegnanti, dei programmi,
degli stipendi da fame, dei buoni sudditi, fedeli ascari del potere vigente; la
scuola che non riesce ad affrancarsi dalla tentazione di controllare tutto e
che in realtà non controlla più niente; la scuola che pensa ancora di dover essere
degli insegnanti e che invece dovrebbe essere sempre di più degli studenti,
allievi, alunni, o comunque dei soggetti in sviluppo, decriminalizzati,
decolpevolizzati, aiutati col non fare niente e non colla febbre della
creatività. Oggetti d’amore e non di produzione. Qualità e non quantità
dell’imparare. Immaginazione, creatività, spontaneità, espressività non possono
essere imposte e neppure insegnate. Un proverbio tedesco dice che ‘Die rose ist ohne warum, sie blumt weil sie
blumt?’ (la rosa è senza perché, fiorisce perché fiorisce). Dobbiamo sapere
rinunciare alla programmazione e al controllo totali.
Ci sono alcuni autori che negli
ultimi tempi hanno scritto sulla scuola e sulle prospettive dell’educazione,
tra questi J. Bruner, E. Morin, J. Rifkin, e tutti e tre hanno posto l’accento
sul senso di “appartenenza” come una delle finalità della scuola di domani.
Qual è la sua spiegazione sull’importanza del senso di “appartenenza”. È un
segno dei tempi o che altro?
Il senso di
appartenenza è una di quelle cose (processi, non contenuti) che vanno imparate
nella scuola. Forse non è insegnabile, ma solo imparabile. Far parte dello
stesso gioco. L’uscita dai ruoli e l’entrata nel gioco di soggetti-alunni e
soggetti-docenti non so se è un segno dei tempi, certo è indice che qualcosa è
mutato. L’ortodossia non paga più e questo vuol dire che il centro, il
monoteismo culturale, la teologia economica, l’unica, oggettiva e sacra verità
non bastano a garantire l’apprendimento. Se la scuola è il luogo
dell’apprendere, essa è anche il luogo dell’appartenenza, del sentimento di
pluralità, dove l’imparare viene garantito dal “patto” e non dalla sacralità.
Nessun dio, nessuna religione può garantire l’apprendimento, anzi può solo
ostacolarlo. Prometeo, l’Eden, la scomunica mostrano facce di questa opzione
contraria all’apprendimento di ogni sacralità. L’imparare è laico perché non è
mai ortodosso, ma sempre eretico. Chiunque impara lo fa a modo suo e, col suo
modo di apprendere, rischia la scomunica del sapere vigente. Chi impara è
sempre solo e ha bisogno di un patto, di un’appartenenza, di compagni che
proteggano l’eresia dell’apprendere in soggetti che altrimenti rischiano di
essere omologati e normalizzati. Lo sviluppo delle scienze e delle arti dipende
dalla capacità di resistenza dei soggetti-allievi (e dal non-luogo dei
soggetti-docenti) rispetto alla cultura vigente e alla loro naturale tentazione
ortodossa.
Che cosa c’è di differente, se
c’è, secondo Lei, tra l’ambiente di lavoro scolastico e altri ambienti di
lavoro?
Va
fatta una distinzione sulla differenza che c’è, e su quella che potrebbe o che
dovrebbe esserci. Vediamo la differenza che c’è. Innanzi tutto nella scuola ci
sono molti giovani, vi è una maggioranza femminile (più nei soggetti-docenti) e
gli orari di lavoro sono più brevi. In generale oggi l’ambiente di lavoro
scolastico è più gradevole degli altri ambienti di lavoro. Inoltre lo scopo
dell’organizzazione scolastica è più immateriale e quindi richiede minore
autoritarismo. Infine i luoghi: dove avviene l’educazione (l’apprendimento)
scolastica tutto è più gradevole, salubre e umanamente accettabile. Anche le
condizioni di lavoro dei soggetti-docenti sono migliori di quelle dei
soggetti-lavoratori. Ma questa condizione migliore non può farci dimenticare quale
potrebbe essere oggi la differenza: negli ultimi anni le condizioni di lavoro
sono molto migliorate ed hanno sviluppato la cittadinanza d’impresa, cioè
l’appartenenza all’impresa. Invece questa appartenenza stenta a installarsi nel
mondo scolastico. È assurdo, ma è così: nella scuola è ancora da svilupparsi un
processo di crescita sociale basata sull’idea di gruppo che oggi già si
concretizza nel lavoro industriale e di servizio. La pubblica amministrazione
resta ancora in Italia al di fuori dei processi di appartenenza e ciò influenza
la scuola che i vertici tendono a mantenere statale con false crociate a favore
dell’istruzione pubblica, che altro non sono che la difesa del centralismo,
della totalizzazione e della prevalenza dell’insegnamento obiettivista e
centralizzato sull’apprendere soggettivo e decentrato. Ciò che potrebbe o
dovrebbe esserci richiede un ben più lungo discorso. Preferisco rimandarlo.
Vorrei che Lei ci parlasse ora
del passaggio dalla “buona scuola” alla “bella scuola”. Ci indichi i termini di
tale passaggio, qual è la differenza tra le due scuole, la strada compiuta e
quella ancora da compiere.
Partendo da
quanto ho già detto, cercherò di rispondere usando altre parole. Il passaggio
dal buono al bello, dalla minaccia alla promessa, dalla paura alla speranza non
è più un’ipotesi teorica. Oggi si vedono le prime parti di un simile passaggio,
quella che possiamo chiamare la transizione estetica. Questa transizione si
basa su una delle più antiche dimensioni fisico-psichiche dell’uomo, quella
basata sulla forza di gravità. Da sempre l’uomo è stato influenzato dalla forza
di gravità. Fisicamente questa forza rappresentava il peso, la caduta, la massa
e l’oggettività. Psichicamente invece questa forza rappresentava l’istinto, la
morale, la passività. L’idea di gravità porta al suo contrario, l’antigravità.
Quest’ultima rappresenta fisicamente il volo, l’ascesa, la leggerezza.
Psichicamente invece l’antigravità rappresenta la creatività, la vita,
l’attività. È importante questa influenza della forza di gravità nella
discussione sul passaggio dalla buona alla bella scuola.
La buona scuola
è una scuola ortodossa, tradizionale, controllata, centrale, unica, sottoposta
alla forza di gravità. È una scuola che prepara buoni cittadini, buoni professionisti,
una scuola eticamente a posto con sanzioni e norme, che rispetta le regole del
gioco e che consente una continuità nel passaggio dalle culture precedenti alle
seguenti, una scuola in cui natura non facit saltus. Invece la bella
scuola è una scuola eretica, innovativa, autonoma, periferica, locale, ispirata
all’antigravità. È una scuola che prepara soggetti, cittadini di una società
che contribuiscono a creare, nuovi “liberi” professionisti, una scuola
esteticamente impostata con premi e promesse, che inventa nuove regole del
gioco e che permette una discontinuità nel passaggio alle nuove culture, una
natura che “promette” continuamente.
Nella
transizione estetica della scuola le due polarità, gravitazionale e
antigravitazionale, danno luogo alla mentalità etica (basata sull’idea di
“dominio”) e alla mentalità estetica (basata sull’idea di “parità”). La prima
(etica) si esprime con codici, minacce, colpevolezze, passati, sentenze,
giudizi, domeniche: in una parola col ‘dovere’; mentre la seconda (estetica) si
esprime con sogni, promesse, ansietà, futuri, poesie, emozioni, sabati: in una
parola col ‘piacere’. La scuola etica, quella delle verità e del dominio,
quella dei primi della classe, del maestro, della necessità di un capo, la
scuola del bisogno di oggettività, del successo ottenuto (se non si sanno o non
si fanno certe cose), del monoteismo di base e della sacralità del sapere ha
dato sinora buoni risultati in termini di benessere possibile, in condizioni di
scarsità di risorse e di prevalenza del fisico sullo psichico.
Però ora non
basta più ad assicurare il massimo benessere in condizioni di abbondanza di
risorse e di prevalenza dello psichico sul fisico. Oggi si sta realizzando
lentamente la scuola estetica, quella delle molte realtà e della parità, quella
del gruppo e del potere a somma variabile, della leadership multipla,
della membership e dell’appartenenza, la scuola dei soggetti, centrata
sull’apprendimento e sul successo ottenuto col benessere soggettivo, col sapere
o fare certe cose, della laicità di base e della umanizzazione del sapere. È
una scuola che sta dando buoni risultati col superamento della mentalità
unitaria. La scuola che insegna come essere classe dominante si sta
trasformando nella scuola che impara come produrre il benessere soggettivo e in
questo appunto consiste la transizione estetica della scuola. Se il dominio si
trasforma in parità e il dovere diventa piacere non c’è più l’ossessione di
studiare per diventare classe dominante e per sfuggire alla miseria.
La formazione degli insegnanti a
livello generale, oltre a pochi momenti di vitalità e di apertura a metodologie
nuove, è sempre vissuta sull’accettazione del niente riassumibile nella formula
“niente ti do e niente ti chiedo”. Un rituale, insomma. Nella scuola ci dobbiamo
accontentare solo di una via personale alla formazione o sarebbe possibile
praticare soluzioni di tipo nuovo e diverso?
La bella scuola,
impostata sull’apprendimento della parità e della ricerca del benessere,
richiede una diversa formazione degli insegnanti. La formula “niente ti do e
niente ti chiedo” è la conseguenza della buona scuola, quella etica che insegna
come diventare classe dominante e quindi rappresenta la continuità della
trasmissione della cultura e dei privilegi esistenti. Il rituale minimalistico
della scuola etica porta a una formazione imponitrice dei docenti. La nuova
bella scuola estetica, sabbatica e non domenicale, dovrebbe avere contenuti e
processi diversi, così di seguito individuabili. Innanzi tutto imparare più che
insegnare, poi ricercare il benessere soggettivo, poi ancora il valore
dell’abbondanza, ed anche il discorso sul come realizzare una tecnologia del
gruppo e del pluralismo spaziale e temporale. Ed anche una tecnica e una teoria
della negoziazione didattica su cui si basa l’apprendimento, ed inoltre la
declinazione della bellezza in campo collettivo con l’apprendimento delle
misure e delle costruzioni degli stili e dei climi organizzativi e
costituzionali. Fino alla capacità di progettazione e di organizzazione del
futuro, incluso il problema della motivazione e dell’autostima dei
soggetti-alunni e dei soggetti-docenti. Un passo importante per uscire dalla
“via personale alla formazione” è quello della ridefinizione della funzione
pubblica. Ma per sostenere questa tesi occorre ridefinire chiaramente la
funzione pubblica che non può essere più una declinazione della sacralità,
della centralità, dell’obiettivismo e della totalizzazione della Stato, reso
unico per essere strumento di dominio e non di parità.
La scuola è una
funzione pubblica perché soddisfa il bisogno di onniscienza degli uomini,
parzialmente accontentato dalla bella scuola. La bella scuola pubblica che
impara parità e potere a somma variabile non è la buona scuola statale che
insegna dominio e potere a somma zero. La formazione degli insegnanti-soggetti
deve essere parallela a quella degli allievi-soggetti.
Gli insegnanti sono pubblici dipendenti, non pubblici
ufficiali sacralizzati. Non sono “unti” dal loro ruolo, sono soggetti titolari
di un loro progetto di benessere parallelo al progetto di benessere dei
soggetti studenti. Ogni progetto è una dimensione futura, sabbatica ed
estetica, fatta di premi e di promesse. Questa è la soluzione “di tipo nuovo e
diverso”: formare gli insegnanti all’invenzione del benessere proprio e altrui,
con mentalità di potere a somma variabile, centrata su relazioni di parità e
non di dominio. La bellezza, non la bontà, dell’insegnare è quella che conta.
La storia dell’educazione è la
storia di una contrapposizione di idee: a seconda di chi va al potere cambia il
tipo di educazione/istruzione. Un esempio: la spinta alla gratuità
dell’istruzione, alla scuola pubblica e all’istruzione diretta e positiva per
gli abitanti delle città e delle campagne, che si proponeva dopo la Rivoluzione
francese, venne superata dall’opera dalla Restaurazione che in pratica negava
ogni istruzione popolare. È chiaro che poi restano instillati nel corpo della
società alcuni principi come l’eguaglianza e la libertà, ma è questa la nostra
sorte, fare movimenti di avanzata e di arretramento verso
un’educazione/istruzione veramente di tutti?
Un andamento
pendolare a tipo ‘stop and go’ è presente in ogni evoluzione sociale.
Chi ha un privilegio (o crede di averlo) raramente lo molla e, quando vi è
costretto, tende a rivolerlo indietro. Ciò vale particolarmente per le vecchie
idee e i vecchi modi di pensare. Oggi il problema di un’educazione veramente di
tutti è teoricamente acquisito. Praticamente però non si realizza perché
resiste l’idea di risorsa scarsa e di dominio come modalità di amministrarla.
Era scarso il cibo ed occorreva un sistema feudale (dominio) che ne regolasse
l’uso. Era scarso il sapere ed occorreva una teologia che ne regolasse la
distribuzione (ortodossia). Era scarsa la vita ed occorreva la pena di morte,
la guerra, quello che Elias Canetti ha definito “ogni potere come potere di
vita o di morte”.
L’idea stessa di
dominio, cioè di un piccolo gruppo di persone che decide per le grandi
maggioranze dell’umanità, come necessaria conseguenza dello stato di scarsità,
sta oggi entrando in crisi. Il dominio non è più una necessità. Questo crollo
dell’idea di dominio, come dolorosa “necessità”, corrisponde a quella che
Philip Slater ha chiamato “la fine dell’era dell’autoritarismo”. È chiaro che questo
apre l’inizio di una società di inter-connessioni, relazioni e comunicazioni di
“parità”, cioè potere a somma variabile, come piacevole possibilità di una
società caratterizzata dall’abbondanza del sapere e dalla facilità della sua
acquisizione per tutti. Inoltre la vecchia distinzione tra produttori e
utilizzatori (consumatori?) del sapere sta scomparendo e la
promozione-invenzione del sapere (ricchezza) è strettamente collegata alla
produzione-utilizzo di benessere, che è oggi sempre più appannaggio di tutti.
D’altronde non si sta più male e bene, ma peggio o meglio.
Questo porta a
diverse soluzioni della dimensione “gratuita”, cioè a carattere pubblico,
connesse al bisogno di onniscienza degli uomini, o meglio di “tutti” gli
uomini. In alcuni paesi l’educazione è tutta gratuita o semigratuita ma le
università hanno tasse elevate. In altri è elevato il costo dell’educazione
elementare e di quella superiore. In altri ancora è gratuita l’università e a
pagamento quella elementare.
Resta il fatto
che l’eguaglianza e la libertà restano sulla carta se l’educazione non è di
tutti ed anche se solo parzialmente essa non è semigratuita. La comunità si fa
carico della disponibilità educativa per tutti non con criteri “mutualistici”
di assistenza ai poveri, ma con criteri di “devoluzione-distribuzione” delle
risorse abbondanti, non con la logica del dominio, ma con quella della parità.
Per realizzare questo ci sarà sempre un lento movimento di avanzata e di
arretramento, in cui occorre evitare che quest’ultimo si rimangi il primo,
fatto che a volte è avvenuto, di solito sotto la spinta di nuove forme di
dominio o di ideologie che hanno “scarsificato” le risorse divenute abbondanti
e combattuto le pari opportunità.
Lei ha scritto: «Un nemico è un
oggetto d’amore, è cioè un centro di accumulo libidico e come tale
preziosissimo per l’individuo. Prezioso come un capo o un innamorato». Ci
spieghi meglio.
Un nemico vero
non va distrutto o eliminato. Se arriviamo a questo punto è segno che il nemico
è falso o è dentro di noi. Un nemico ci serve per produrre ed incanalare
energia e quindi dobbiamo sceglierci i nostri nemici. L’ideale è non lasciare
al caso la costruzione di un nemico. Occorrono nemici che ci aiutino ad
inventare benessere. Nemici che non provocano solo malessere. Occorrono nemici
che siano la nostra coscienza e noi stessi abbiamo la possibilità di essere
nemici degli altri, per i quali forniamo coscienza e feed-back. Anche in
questo campo non ci basta più [anche se è già un passo avanti!] avere un buon
nemico. Ci serve un bel nemico, cioè un oppositore al nostro progetto di
benessere che ci spinga al futuro, alla promessa e alla speranza nella
costruzione del benessere. Forse una figura paterna, quella che più si avvicina
a questa idea di nemico, e forse la bipolarità amico/nemico come oggetto
d’amore doppio/altro non è che la traduzione sociale della bipolarità figura
materna/paterna.
Un capo o un
innamorato possono essere materni o paterni, buoni o bei nemici.
Paradossalmente, seguendo questo fantasioso ragionamento, il bel nemico sarebbe
più paterno, cioè maschile, mentre il buon nemico (più vicino all’amico)
sarebbe più materno, cioè femminile. Ma non occorre sottilizzare. Solo bisogna
impiegare l’energia psichica in begli oggetti d’amore.
Se è disposto a giocare, ci
indichi un nemico o i nemici della scuola italiana. Per giocarci, noi operatori
della scuola, la possibilità di un mutamento, con chi dobbiamo prendercela?
I nemici della
scuola italiana dovremmo inventarli e gestirli noi. Se non lo facciamo è segno
che lasciamo al caso questa dinamica. Se vogliamo uscire da questa condizione
casuale, occorre innanzi tutto individuare i “protagonisti” di questa scuola,
quelli che in termini di società benestante possiamo definire i “soggetti”
della scuola italiana. Tra questi vanno cercati i nemici. Il primo soggetto è
ovviamente l’allievo, che poi siamo stati, siamo o saremo tutti noi. Il secondo
soggetto è, anche ovviamente, l’insegnante, che poi anche siamo tutti noi. Il
terzo soggetto è la società con i suoi strumenti di espressione, i suoi bisogni
e i suoi desideri, i suoi dispositivi mentali circa i propri ed altrui
privilegi, e le difese per mantenerli ed ampliarli, le sue ideologie
scarsificatrici e i propri meccanismi moltiplicatori. Il quarto è la famiglia
che può essere considerata la prima sede di apprendimento, la prima scuola
almeno cronologicamente. Il quinto soggetto è il lavoro, cioè il meccanismo di
produzione della ricchezza. Il sesto soggetto della scuola è la ricerca, cioè
il metodo per il perseguimento ottimale del benessere. Il settimo soggetto è la
comunità intesa come mercato, come distribuzione e ridistribuzione del
benessere, delle risorse, del sapere, ma anche del dominio, dell’ideologia,
della sacralità. L’ottavo soggetto è il personale di manutenzione dei rapporti
tra questi sette soggetti: dirigenti, segretari, ministeri, direttori, ex
provveditorati, amministrazione, eccetera. In ognuno di questi otto soggetti si
annida un nemico potenziale: e così possiamo “giocare” ad individuarli per
potere poi sceglierli, inventarli e/o frequentarli in modo da ottenere il
massimo di benessere dalla relazione con i nemici.
In pratica, sono
nemici della scuola italiana coloro che non si sentono contemporaneamente
soggetti-studenti e soggetti-docenti o peggio coloro che non si sentono né
l’uno né l’altro. Sono nemici gli operatori che si ritengono “padroni” della
scuola (la scuola non è degli studenti o dei docenti, ma di tutti i soggetti
che sono tra l’altro in transizione estetica e quindi più facili da trasformare
in nemici). Sono nemiche le famiglie che concepiscono la scuola come un
parcheggio dei ragazzini da vigilare. Sono nemici quei datori di lavoro,
dirigenti o sindacalisti, che vogliono dalla scuola il “prodotto finito”
rinunziando all’invenzione dei soggetti lavoratori. Sono nemici infine gli
scarsificatori del sapere, coloro che credono alla scuola come creatrice della
nuova aristocrazia tecnocratica, in una parola il dominio.
Che cosa le fa venire in mente la
teoria di J. Rifkin secondo cui siamo in piena trasformazione e transiteremo
tra breve dal capitalismo industriale al capitalismo culturale? Chi e cosa,
secondo Lei, potrebbe assumere il ruolo di regolazione ecologica nel
capitalismo culturale?
Il problema del
capitalismo non è quello di essere industriale o culturale ma dominante. Rifkin
prevede una nuova forma (tecnologica? informatica? culturale?) di dominio. C’è
un pessimismo di fondo in queste idee apparentemente innovative. L’idea di
dominio non si tocca. I vecchi anarchici italiani, come Errico Malatesta,
avevano espresso questa idea con il concetto di ‘cambiare la qualità di potere,
non gli uomini’. Da più di due secoli il dominio resta immutato.
Noi oggi abbiamo
auspicato questa trasformazione di potere come cambiamento della qualità di
potere. Il che significa cambiamento del tipo di dominio o addirittura
abolizione del dominio. Purtroppo anche negli USA questo cambiamento è
nettamente elitario e minoritario. L’idea di dominio è ritenuta necessaria,
soprattutto nella scuola, per cui l’idea di parità diventa difficile da
realizzare. Anzi recentemente gli USA appaiono sempre più come i difensori
dell’idea di dominio [il loro!]. Una “regolazione ecologica” nel capitalismo
culturale non può però realizzarsi senza un’idea di parità (= equilibrio dei
poteri, reciprocità, potere a somma variabile), perché la presenza di un
dominio (= disequilibrio dei poteri, unilateralità, potere a somma zero) o
peggio ancora la convinzione della necessità di un dominio, determina una
distorsione interessata dell’informazione e della comunicazione, con
conseguente “inquinamento” culturale, incapacità di inventare benessere e
difficoltà dei soggetti “dominati (= inquinati)” ad agire come titolari di
progetti di benessere.
Il ruolo della
regolazione ecologica del capitalismo culturale può essere assunto dalla
scuola, ma dovrebbe essere una scuola che abitua al disinquinamento e
all’ecologia culturale, cosa questa oggi lontana da ogni programma di
rinnovamento dichiarato. Però il discorso è ancora aperto e non si può mai
sapere!
C’è, secondo Lei, una
contraddizione tra chi vuole la scuola come luogo di trasmissione di saperi e
valori in qualche modo già definiti, e gli studenti che chiedono di dare un
senso alle loro debolezze e ai loro desideri?
Sì. Ed è una
contraddizione tra dominio e parità, tra scoperta del malessere e invenzione
del benessere, tra necessità e possibilità, tra dovere e piacere, tra bontà e
bellezza, domenica e sabato, docenti e studenti. La “trasmissione”
tranquillizza i più dipendenti e colpevolizza gli indipendenti. Il
“fraintendimento”di Robert Bloom rende eretici ed ansiosi i più dipendenti e
più liberi i più indipendenti. A questi ultimi competerà il ruolo di motore
dell’apprendimento.
D’altronde qui
si vede il passaggio dal modello magistrale (il magister, simbolicamente
il padre) al momento gruppale (dove prevalgono i fratelli). La scuola dei padri
si è trasformata insensibilmente in scuola dei fratelli. Le relazioni di
dominio (i pochi che tengono sottomessi i molti) si stanno trasformando in
relazioni di parità, il docente è un fratello maggiore con [quasi!] gli stessi
problemi degli studenti. Inoltre i bisogni si stanno trasformando in desideri a
più facile soddisfazione. Quindi vi è minore dipendenza. Lo stesso concetto di
dipendenza ha una minore desiderabilità sociale, man mano che il dominio perde
di importanza.
Al centro, poi, si trova
l’insegnante che decostruendo i saperi e i valori precostituiti dà vita a un
antico desiderio che è quello di insegnare. È così o c’è qualcosa che non va?
È così e c’è
anche qualcosa in più. C’è il rifiuto dei ruoli precostituiti, della
suddivisione dei ruoli tra docenti, studenti, genitori, dirigenti eccetera, e
la voglia di riunire qualcosa come diceva Saffo della stella Venere, che
riunisce tutto ciò che l’aurora splendente ha diviso. Questo qualcosa è
l’imparare/insegnare contemporaneo. Ogni insegnante insegna perché vuole
imparare e riunificate in sé la coppia di chi impara e di chi insegna. Per
secoli la distinzione di queste due azioni si era basata sull’identificazione e
la simmetria tra insegnare e imparare. Oggi questa simmetria sta scomparendo,
la distinzione tra i ruoli si indebolisce e il desiderio di una dimensione
psichica di sviluppo, basata sul circolo virtuoso dell’apprendimento-insegnamento
continuo, prende l’insegnante. “L’antico desiderio” di insegnare si rinforza
con l’antico desiderio di imparare. Tentare di essere quello che non si è
significa anche essere quello che si vuole essere: sviluppo significa
invenzione di se stessi.
Don Lorenzo Milani, in Esperienze pastorali, a chi gli chiedeva un metodo, un programma, le materie, le tecniche
didattiche, rispondeva che non bisogna chiedere che cosa fare, ma come bisogna
essere per fare scuola. Per il “prete scomodo” bisogna avere le idee chiare in
fatto di politica, essere schierati con i deboli, con chi non ce la fa, avere
l’ansia di elevare il povero a livello superiore, non pari a quelli che
comandano ma superiore, più uomo, più spirituale, più tutto. Qual è il suo
commento?
Certamente
don Milani era un prete scomodo. Con le sue idee sull’essere insegnante si
scontrava con la gerarchia che ha sempre voluto decidere il cosa e il come è
possibile insegnare. Però l’idea di “essere” per fare scuola mi ricorda il
discorso di Carmelo Bene sull’attore (che lui individuava in se stesso!) che
non doveva fare o recitare “capolavori”, ma essere un capolavoro. Don Milani
vedeva nell’insegnante questo capolavoro.
L’essere
schierati con i deboli significa molto in termini di parità, ma si esaurisce
rapidamente se lascia intatto il dominio, cioè la gerarchia (geron =
vecchio + arché = dominio in greco, da cui gerarchia = dominio dei
vecchi). La gerarchia odia i deboli, non vuole la parità e don Milani lo sapeva
bene. Il povero non può solo tentare di essere superiore, perché parla una
lingua straniera, quella del dominio vigente. Il povero deve [può?] essere
educato a cambiare il dominio, anzi ad indebolire l’idea di dominio. Lo scopo
di ogni insegnamento è la condizione di parità dell’alunno.
Molte leggi e
forse la stessa democrazia ateniese sono nate così, come tentativi di
indebolimento del dominio. Franco Fornari diceva che ogni uomo ha bisogno di
vivere in uno spazio sovrano. Solo che la sovranità non esiste in natura e va
inventata momento per momento, non prescindendo naturalmente dalle condizioni
obiettive di vita. L’educazione alla sovranità è stata una grande lotta di don
Milani, lotta perduta come un fuoco di paglia spento dall’acqua dei ministeri e
dei bandi per la formazione dei dirigenti scolastici. Lotta perduta perché il
dominio vince sempre contro la parità, ma non per questo meno utile. Di queste
sconfitte infatti ci resta però il senso della possibilità, quella che il
piccolo principe di Saint-Exupéry chiamava “il colore del grano”, l’utopia
della parità possibile.
È una preoccupazione eccessiva o
reputa che ci sia del vero nell’idea che la scuola reale è sempre meno il luogo
dell’imprevisto e dell’incontro fruttuoso in termini affettivi e creativi?
È verissimo. L’organizzazione dell’incontro ha ucciso [però
non del tutto!] l’incontro. Nel linguaggio comune si potrebbe dire che è
talmente difficile incontrarsi, che te ne passa la voglia! Si rinuncia prima di
farlo, per paura di non riuscirci; una volta si diceva “il gioco non vale la
candela”. Ciò che manca è proprio l’imprevisto, che manca perché è
“criminalizzato”, reso eresia, errore, estraneo. Ma l’imprevisto ritorna e
rifornisce di piacere il grigio mondo dei doveri incrociati.
Nel 1914 Papini scriveva che
dalle scuole, così come erano strutturate, non poteva uscire nulla di buono.
Lei quali cambiamenti indicherebbe tra i più importanti avvenuti da allora ad
oggi?
Non ho la
competenza sufficiente per rispondere. Alcuni cambiamenti sono stati utili.
Però non tutti i cambiamenti sono stati positivi. L’ondata storicista e
idealistica gentiliana del 1925 ha lasciato danni non ancora sanati, come
l’assenza della psicologia e delle scienze sociali, come il rigetto della
soggettività, come il prevalere dell’insegnare sull’imparare.
Positiva è stata
recentemente l’influenza sociale e gruppale che ha portato ai “moduli” nella
scuola elementare (ora però depotenziati) e la differenziazione sempre maggiore
delle possibilità di apprendimento. Il sapere eretico (creativo?) sta
acquistando spazio, ma i tempi sono lunghi e il prestigio sociale della scuola
è ancora troppo basso (quindi anche le risorse economiche sono insufficienti).
Il docente-tutor, di recente proposta, potrebbe essere utile se l’idea di
gruppo sopravvive a quello che Keynes chiamava “l’incubo del contabile”. Oggi
il pericolo di una scuola di contabili è enorme. Contare i voti, i mezzi, le
ore, i programmi porta alla sterilizzazione dell’apprendere, a un’antisepsi
didattica.
Nel 1970 Ivan Illich parlò di
descolarizzare la società, che significava non solo abolire la scuola, ma
abolire essenzialmente l’idea di scuola. Era un modo per opporsi alla tendenza
spersonalizzante che inevitabilmente la scuola afferma. Lei in proposito che
cosa pensa?
Non conosco le
idee di Illich. Mi sembra una proposta “chirurgica” tipica di chi non sa
risolvere i problemi. La scuola è oggi inefficiente, inefficace, ma
indispensabile. Se uno ha un braccio ferito, l’ultima cosa a cui pensa è
amputare il braccio. Ciò che è da abolire è l’indottrinamento, l’idea di
ortodossia dei saperi, l’insegnare la dipendenza dal dominio. Ma, ripeto, non
conosco le idee di Illich. La scuola sta allo sviluppo come la chiesa sta alla
fede. Scuola e chiesa non sono mai state in grado di sostituire lo sviluppo e
la fede.
Lei ha raccontato che il suo
maestro, padre Agostino Gemelli, le ha insegnato molto sulla dimensione del
gruppo: egli aveva una sola chiave che apriva sia il portone dell’Istituto di
Psicologia sia tutte le porte degli studi interni, compresa la porta del direttore,
e che quella chiave Lei la conserva ancora, come simbolo di gruppo.
È vero, con un
solo passe-partout che ho ancora [spero! devo andare a vedere nel mio
cassetto!], si aprivano tutti gli studi dell’Istituto di Psicologia che nel
1954 si chiamava ancora “Laboratorio di biologia e psicologia sperimentali”,
attualmente Dipartimento di Psicologia. Negli anni Cinquanta c’era spirito di
gruppo in quella scuola. Avevamo la possibilità di andare nell’Istituto di
giorno, di notte, di festa, quando volevamo. Ci si incontrava inaspettatamente.
Gemelli forse non sapeva neppure dell’esistenza di un gruppo, era un
autoritario vecchia maniera, un paternalista, un francescano affezionato, ma
aveva creato attorno a sé un’atmosfera, un clima plurale. Eravamo in tanti,
collegati tra di noi. Non mi è più capitata una condizione simile. Delle molte
cose scritte su quest’uomo, non è mai stato detto che il clima che Gemelli
creava (paralizzato sulla sua sedia, lacerato dai dubbi e dalle resistenze alla
psicologia, consapevole della sostanziale diffidenza della gerarchia cattolica
reprimente verso la psicologia liberante) era di grande complicità, di
richiesta a un gruppo di colleghi, allievi, amici, di un supporto emotivo che
solo un gruppo non dichiarato, ma praticato, poteva dare. Non va dimenticato
che Gemelli aveva studiato a Wurzburg, in Germania, nel gruppo di Kulpe, cioè
degli introspezionisti e che lì aveva partecipato a un gruppo di ricercatori.
Erano tempi di autoritarismo violento che portò al nazismo e al fascismo. Però
la Germania con la sua Rat Haus
(casa del consiglio, quello che noi chiamiamo municipio = raccolta dei doni)
influenzò Gemelli e la sua tendenza a fare gruppo. Molte riunioni, ogni
settimana incontri di discussione, viaggi in luoghi diversi per temi e stili,
pluralismo diffuso, sia pure dominato dalla personalità ‘dominante’ di Gemelli.
Se vuole, ci racconti con più
particolari quell’evento e ci indichi una ‘chiave’ attuale che predisponga ad
una concezione di disponibilità ad entrare nelle cose degli altri.
Noi del
gruppo volevamo bene a Gemelli e lui lo ricambiava. Il bene era fiducia (o
dentro o fuori) ed era aiuto, per comprare una casa, per pubblicare libri, per
andare all’estero: se ne parlava insieme. Oggi l’abbondanza delle risorse
permette maggiormente di passare dalla suddivisione (parcellizzazione) alla
condivisione (cooperazione). Quindi la “chiave” (metafora di sovranità = le
chiavi del regno!) ha bisogno di passare ad altre metafore, ad altre
simbologie. Forse nel mondo virtuale possiamo trovarne. Per esempio nella rete.
Oppure nella condivisione di una metafora. Fare dei new groups, oppure
fare una rete di scuole allegre, non centralizzate, ma messe in contatto tra di
loro tramite internet. Per esempio una rete Web. Negli Stati Uniti si è
diffusa la tecnica del “portfolio” cioè di un sito specifico per ogni
studente in cui il docente può andare a curiosare. A questo può essere aggiunto
un sito per ogni docente, in cui lo studente può andare a curiosare. Il tutto
viene limitato dalla presenza di una password segreta e riservata ai
soggetti (studenti/docenti) del “portfolio”. Ciò porta a una serie di
visite continue e reciproche tra i soggetti della scuola che si possono
organizzare in modo localistico e non centralizzato. Si tratta ovviamente di
metodi più avanzati che provocano fiducia, senso di appartenenza e benessere
simili a quelli che provavamo noi, negli anni Cinquanta, ricevendo da Agostino
Gemelli le chiavi degli studi di tutti i componenti dell’Istituto, direttore
compreso, e del portone (laterale) dell’Università.
Organizzazione come sinonimo di
rigidità e come carattere corporeo, sessuato e soggettivo dell’insegnare e
dell’apprendere: come è possibile conciliarli?
L’organizzazione
rigida è spesso maschile, quella flessibile è femminile. Anche la sessualità
biologica è sostenuta più dai maschi, mentre quella psichica, detta Sender, è
sostenuta più dalle femmine. La sessualità di ogni tipo continua ad essere
rimossa nel gruppo della scuola, dove gli uomini sostengono e praticano (soprattutto)
il dominio, mentre le donne sostengono e (non sempre) praticano la parità. Una
formazione a questi argomenti manca nella scuola italiana. Una conoscenza dei
problemi della parità e del dominio, cioè della pari opportunità (non solo per
uomini e donne, ma per sani e malati, occupati e disoccupati, ecc.) non viene
mai proposta agli alunni italiani.
I giovani oggi, per usare alcune
sue parole, “vogliono esprimere una irrefrenabile voglia di stare bene”. Oltre
l’ostacolo delle persone che nella scuola sono state educate piuttosto ad
esprimere il malessere, quale potrebbe essere l’atteggiamento che faciliti nei
giovani l’espressione di questa loro volontà?
Esprimere la
propria voglia di stare bene, cioè meglio, è il modo migliore di facilitare
l’espressione altrui. Dimostrare i propri desideri senza colpevolizzarsi o
colpevolizzare, prendere coscienza dell’abbondanza delle risorse e della loro
funzione benestante, decriminalizzare il benessere e il suo raggiungimento,
cambiare la qualità del potere da ripartitivo (a somma zero) a cooperativo (a
somma variabile). Questi ed altri comportamenti ed atteggiamenti possono essere
indicati come metodo per esprimere la volontà di “stare bene”.
C’è un libro di Anne Michaels
intitolato In fuga. Nel libro, un piccolo ebreo
polacco viene salvato da un intellettuale greco che lo adotta e lo fa rinascere
poiché i nazisti hanno sterminato la sua famiglia. È la storia di un lento
apprendistato che il piccolo ebreo dedica al maestro che lo ha salvato. Per
spiegare il metodo usato, il ragazzo dice che il suo salvatore aveva “piantato
in me filari di parole che sarebbero cresciuti per il resto della mia vita”. A
parte la bellezza di una simile frase, è questa la vera essenza di ogni
insegnamento o oggi non c’è più posto per situazioni simili?
Non so, non
conosco il libro, ma penso che l’apprendimento che questo insegnamento ha
stimolato sia ancora oggi possibile. Anche oggi un docente può “piantare filari
di parole”. Solo che, come in agricoltura le tecniche si sono sviluppate, il
maestro si è moltiplicato, le cose da imparare sono molto di più e la vita
stessa è più lunga.
Lei nel ’67, se la data è esatta,
è stato denunciato per falso ideologico in atto pubblico e costretto alle
dimissioni dall’Università Cattolica di Milano per aver fatto gli esami di
gruppo. Come ha vissuto allora quella esperienza e che cosa andrebbe fatto
attualmente per scuotere l’ambiente scolastico che appare sfocato e confuso?
Sì, è esatto.
Stavamo sperimentando le tecniche di gruppo, dopo il congresso mondiale di
psicoterapia e tecnica di gruppo che avevo organizzato a Milano nel 1964. Erano
nate l’AIPG, l’APIL, il Centro psicologia economica, il Centro studi ergonomici
ed eravamo in grande entusiasmo per i metodi di gruppo. La contestazione studentesca
non era ancora cominciata. Feci gli esami con discussioni di gruppo su un tema
della mia materia di insegnamento all’Università Cattolica, alla Facoltà di
Scienze Politiche. I voti furono dati differenziati per ogni studente e le
discussioni erano molto più approfondite degli esami individuali. Ma la cosa
non piacque al preside di Facoltà, Gianfranco Miglio, che vi scorse il reato di
falso ideologico, perché avevo certificato di aver esaminato gli studenti uno
per uno, mentre nella realtà li avevo esaminati in gruppo. A quell’epoca
l’Università era in subbuglio. Era stato allontanato il penalista Delitala ed
altri giuristi ed economisti per cavilli giuridici del genere: ortodossia ed
eresia nella didattica. Un saggio che analizzava metaforicamente questa
situazione Gli osservanti, scritto da Franco Cordero, aveva fatto
scandalo e gli animi erano esasperati. Fatto sta che Miglio mi denunciò alla
Procura della Repubblica di Milano e ritirò la denuncia (su querela di parte)
dopo che io diedi le dimissioni dal corso di psicologia sociale. La Facoltà di
Economia e il suo preside Mario Romani mi chiamarono ad insegnare psicologia
del lavoro qualche giorno dopo che gli studenti della Facoltà di Sociologia di
Trento avevano chiesto ed ottenuto l’insegnamento di psicologia del lavoro (il
primo in Italia) che mi era stato affidato. La mia posizione fu di paura e di
delusione. Non servono a nulla meriti, entusiasmo, lavoro. Basta un cavillo
giuridico e chi ha il potere ti annulla a piacimento. Allora decisi di non legarmi
più a nessun organismo fisso e di fare della mia autonomia il punto centrale
del mio lavoro. Per il resto l’episodio non servì a nulla. Mi sostituì
Giancarlo Trentini come se nulla fosse successo. Miglio diventò antidemocratico
e poi senatore leghista e l’ambiente scolastico continuò ad essere “sfocato e
confuso”.
Le cose sono
continuate sempre così. Nel 2000 ho dato le dimissioni dall’Università di
Bologna dopo le angherie subite dall’allora rettore Fabio Roversi Monaco che mi
negò due volte l’anno sabbatico e dirottò i fondi ottenuti dal Ministero per la
‘Scuola di specializzazione in relazioni industriali’ da me diretta verso
attività a lui più gradite. Mi sono dimesso dall’Università di Bologna, deluso
dall’andamento della Facoltà di Scienze Politiche e dalla gestione del
Dipartimento di Organizzazione, ambedue contraddistinti da spirito clientelare
e privatistico.
Ed anche a
Bologna, dopo essermi ritirato, la Facoltà di Economia mi ha chiesto un corso:
è esistito un destino di economista in tutta la mia carriera accademica. Quando
ero in delegazione spesso mi definivano come economista. Le cose che io
considero psicologia, da molti economisti sono considerate economia. E anch’io
considero economiche molte cose che io faccio in ricerca e in insegnamento
(come la produzione di ricchezza, il clima organizzativo, lo stato di
benessere, ecc.).
C’è, secondo Lei, qualche cosa
che viene prima di tutte le riforme scolastiche e su cui occorre discutere e
cercare un accordo?
Sì, un discorso
sul metodo che è rimasto pedagogico (pais, paidos = bambino);
oggi si parla di educazione degli adulti o permanente, “antropagogia”. Si parla
di “andragogia”, ma le donne si ribellano perché rifiutano una cultura maschile
(aner = uomo maschio – anthropos = uomo, essere umano), manca un
dibattito pacato sull’apprendimento, sul cosa, dove, chi? Per cui ogni riforma
è isterica, incomprensibile, rigettata in partenza, seguendo il detto americano
shut everything is moving (spara su tutto ciò che si muove). Anche
l’ultima riforma non ha permesso un serio dibattito.
A Lei, quando conduce un gruppo,
piacciono gli interventi simbolici a battuta; faccia uno di questi suoi
interventi per definire la scuola italiana attuale.
Stiamo facendo
un viaggio con l’autobus e dobbiamo cambiare linea. Oggi siamo arrivati al
capolinea e non sappiamo se scendere o prendere una coincidenza o restare
sull’autobus che riparte tra pochi minuti e ritorna indietro da dove era
venuto. Non sappiamo se c’è una coincidenza o se scendendo ci si trova ad
aspettarla tra qualche ora. D’altronde se torniamo indietro almeno restiamo al
coperto mentre fuori piove. È vero anche che abbiamo un ombrello, me se poi la
coincidenza non arriva?
L’organizzazione come sentimento:
Lei ha scritto che l’organizzazione è uno stato d’animo. Vuole spiegarci come è
arrivato a questa idea?
L’ho scritto
perché sono convinto che questo sia lo scopo ultimo di ogni organizzazione. Non
importa come questo sentimento si raggiunge, con un accordo, con una legge, con
uno stile di comando. Gli obiettivi di un’organizzazione si raggiungono se c’è
un sentimento particolare che è la caratteristica più specifica di
un’organizzazione. Questo stato d’animo ha tre caratteristiche fondamentali:
1.
è un’emozione (irrazionale);
2.
è un elemento di passaggio (tra una condizione ed
un’altra), una cinghia di trasmissione;
3.
è apprendibile: si può cioè imparare, insegnare,
metterlo alla base di azioni formative, di sviluppo e di cambiamento.
L’organizzazione scolastica si
distingue, secondo alcuni, da altri tipi di organizzazione per la sua struttura
a “legami deboli” (Weich, Romei ed altri). “La natura delle attività didattico
educative impone la necessità di accettare la diversità, la non prevedibilità,
la non predeterminabilità dei processi e dei comportamenti, come una
caratteristica da gestire e non un difetto da correggere”.
Certamente è
diversa come obiettivi ed attori, ma anche lei in fondo esprime un sentire
tramite stati d’animo e sentimenti. L’immaterialità del prodotto determina
un’immaterialità dei suoi attori e della sua cultura.
Se questa linea fosse accettata,
la sua idea di benessere – “la bella scuola” – avrebbe maggiori possibilità di
riuscita?
Il bello si
distingue dal buono per le sue origini. Da secoli la scuola tende ad essere
solo una “buona scuola” regolata da una mentalità etica. Oggi lentamente la
scuola si sta trasformando in una “bella scuola” regolata da una mentalità
estetica.
Una mentalità
etica proviene dalla coscienza di un malessere, dall’esperienza personale o
riferita di un danno subito o di un danno possibile. Come tale caratterizza la
società malestante: ne è anzi l’elemento fondante, per evitare gli errori
passati. In queste condizioni la storia è maestra di vita. Invece la mentalità
estetica proviene dalla speranza di un benessere, che deriva dall’esperienza
personale o riferita di un vantaggio goduto o di un vantaggio possibile. Come
tale caratterizza la società benestante, essendone l’elemento fondante, per
realizzare i desideri. Così volere è potere. Ma quale potere? Competitivo o
cooperativo?
Inoltre questa
non troppo chiara distinzione viene complicata dall’esplodere della
soggettività. Benessere e malessere sono sempre soggettivi. Danno e vantaggio
cambiano spesso di tipo e di entità. Così anche gli errori diventano successi,
il benessere viene vissuto male e il potere cooperativo non viene percepito
come “bello”: le speranze e le promesse stentano ad emergere dal mondo delle
paure e delle minacce. Il soggetto liberante e bello diventa assurdamente
repressivo e buono: la norma riprende corpo sotto la paura della libertà.
Oggi la scuola
sta traversando così un affascinante momento di crisi. Le minacce sono ancora
più numerose delle promesse, ma le speranze cominciano ad essere numerose entro
il grande mare delle paure. Oggi viviamo questo passaggio dalla buona alla
bella scuola con molta ansietà ed il problema non è quello di diminuire o
controllare l’ansietà con cambiamenti strutturali di facciata, ma quello di
convivere con l’ansietà con cambiamenti continui ed estetici.
Ma la riforma dell’attuale
ministro tende a rafforzare la coesione organizzativa e gli strumenti di
management classico che sono operanti negli istituti scolastici. Che fare?
Ormai i
cambiamenti di facciata non servono neppure a bloccare l’ansia. Occorre premere
sull’acceleratore e fare in modo che si sviluppi una politica dei “cento
fiori”. Ogni istituto-scuola deve sviluppare un suo prodotto/progetto di
benessere con un circolo “virtuoso” che consenta di operare, promettere e
realizzare un progetto di benessere che ogni scuola deve avere la possibilità
di produrre ed implementare: allievi ed insegnanti (e il personale tutto) sono
in “reciproca continua interazione”. Nessun cambiamento o riforma “reale” può
venire dal centro. Nessuna innovazione può essere “ministeriale”.
Parliamo degli insegnanti.
Apprendere a star bene è un atteggiamento e un’aspirazione che è collegata alla
soddisfazione dei propri desideri e delle proprie esigenze. In termini brutali,
se un insegnante non è in sintonia con l’impostazione generale della scuola e
con l’aria che tira, ma sente minacciato il proprio lavoro e il suo orizzonte
di senso, l’unica sua possibilità è quella di cambiare lavoro?
No, occorre
realizzare una “continua reciproca interazione”. Il rapporto con il
potere-dominio vigente esiste in ogni condizione lavorativa e dovunque esiste
il problema della negoziabilità. Fare carriera spesso urta contro il proprio
benessere soggettivo. Se un insegnante sente minacciato il proprio “orizzonte
di senso” può sempre “inventare” qualcosa. Non è certo facile, ma scrivere,
proporre, riunire, aiuta molto. Occorre saper “aspettare” raccordando la natura
immateriale dell’insegnamento e della scuola. Ed avere un’ipotesi “condivisa”
sul tipo di insegnamento futuro.
Adesso potrebbe dirmi che idea
Lei ha del docente in Italia? Come premessa le ricordo che i docenti della
scuola statale italiana sono circa 750mila (83mila nella scuola dell’infanzia,
252mila nella scuola elementare, 175mila nella scuola media, 235mila nella
secondaria). Nell’ultimo contratto hanno ottenuto un aumento medio di poco più
di 120 euro mensili. Oltre alla funzione di base che è quella di insegnare,
devono saper progettare, coordinare, valutare, verificare, essere di supporto
organizzativo, partecipare a gruppi di ricerca e a commissioni di lavoro, fare
da raccordo inter-istituzionale, possedere competenze psicosociali e di
gestione di relazioni interpersonali. E qui mi fermo perché, tra vecchie
funzioni contrattuali e quelle entrate in vigore con l’autonomia, mi sembra di averle
elencato le cose più importanti che sono richieste a un docente.
Ne ho un’idea
pessimista, perché lo considero “progressivamente inadeguato”. Infatti la sua
adeguatezza diminuisce dalla scuola materna alla elementare, sino alla scuola
di II grado (per non parlare dell’università dove l’inadeguatezza è massima).
La causa
consiste nella progressiva rigidità della carriera e delle competenze, nel
tecnicismo delle “materie”, nella scarsa retribuzione, nelle insufficienti
riserve economiche, ma soprattutto nel clima di impassibilità e di rinuncia che
pervade i docenti tutti. Pregevoli eccezioni esistono e vanno utilizzate come
progetto e possibilità. Le qualità richieste oggi ai docenti sono diverse e più
“aspecifiche”. Il progetto di riforma Moratti teoricamente affronta questo
problema con l’idea di docente “tutor”, ma praticamente, senza adeguata
formazione, senza sufficiente motivazione e senza incentivazione al
cambiamento, rischia di insabbiarsi così come è d’uso nel campo educativo.
Per i docenti
d’altronde occorrono iniziative radicali: dalla differenziazione delle
competenze alla costituzione di scuole per la formazione dei docenti, dalla
chiarificazione dei ruoli direttivi all’autonomia del “potere educativo” e del
Consiglio Superiore dell’Istruzione, dalla maggiore rilevanza da dare alla
scuola dell’infanzia (83.000 docenti sono pochi) sino all’abolizione degli
organismi centrali, come il Ministero dell’Istruzione, passando da una rete con
investitura dall’alto ad una rete con crescita dal basso. In questo
rinnovamento occorre un maggior contributo psicologico e soggettivo.
Parliamo della psicanalisi.
Perché secondo Lei il mondo della scuola, dei suoi operatori, ha così paura
della psicanalisi in generale?
Perché anche la
psicanalisi è un’espressione del potere-dominio vigente. Ha spesso un carattere
“religioso” che non consente trasparenza. Oggi la gente ha bisogno di
trasparenza, anzi ne ha desiderio, perché sente che questa trasparenza è
possibile. Ha bisogno di leggerezza e soprattutto ha desiderio di parità, di
uscire dal dominio e dalla sacralità del potere. La psicanalisi come tecnica
terapeutica ha dato grossi contributi al benessere. Come ideologia della non
coscienza e della opacità sacralizzata ha distrutto benessere, autonomia e
soggettività.
Ci
può fare un esempio che spieghi la sua ultima affermazione?
La psicoanalisi
medica, passata rapidamente nelle mani di filosofi ed intellettuali “selvaggi”,
ha fornito le basi per raffinate ideologie immobiliste e conformiste, seguendo
il “principio di realtà”, rifiutando il parere dei pazienti nella valutazione
dei risultati, utilizzando il principio di investimento feudale per “unione”
nell’apprendimento, sino a sostenere la non insegnabilità della psicoanalisi
nell’università.
Potrebbe darci una definizione di
che cosa è per Lei, oggi, la cultura?
Non so cosa
rispondere. Eppure, come diceva Augusto Murri, preferisco sbagliare anziché
negarmi. La cultura è per me un sentimento, un’emozione di appartenenza, un
potere a somma variabile, una modalità di creare ricchezza, ma mi risulta
difficile dire cosa intendo per cultura. È una dimensione plurale a molte
entità, una complessità gradevole da esplorare senza controllare. Una cultura è
anche un clima caratteristico di una certa comunità, un sistema di relazioni
specifiche di questa comunità.
Secondo Lei c’è un indirizzo, una
scuola psicologica che è più appropriata per la formazione degli operatori
della scuola?
In modo chiaro
no. Non c’è una scuola “ortodossa”. Ogni ortodossia uccide la scuola. La precisione
non va confusa con l’ortodossia. La prima si basa su verifiche empiriche. La
seconda su assiomi facili a produrre dominio. L’ortodossia scolastica torna al
suo punto di partenza: prodotta da un potere uni-dimensionale (mon-archico),
produce a sua volta mon-archia. Né è auspicabile un potere an-archico che
produca an-archia.
Se una scuola
psicologica viene intesa come un luogo di produzione di sapere scientifico, o
di modelli di benessere, ci sono molte scuole appropriate per la formazione dei
docenti, come il costruttivismo, la terapia non direttiva, la fenomenologia, la
dinamica di gruppo, la drammatizzazione, la schesologia delle relazioni, ecc.
Se
invece viene intesa come un punto di verifica dell’esattezza di un metodo, e/o
di un’ipotesi di benessere, ci sono quasi esclusivamente luoghi ideologici
produttori di ideologie dominanti, autoritarie e comunque anti-paritarie. La
psicanalisi, il cognitivismo, la neuropsicologia con la loro impostazione
dogmatica e auto-referenziale spesso bloccano l’apprendimento e lo sviluppo.
È fondamentale
al riguardo la nozione di parità, prodotto della pluralità. Questo concetto
permette di realizzare una vera opposizione al dominio e all’autoritarismo. Non
si limita ad una contro-dipendenza, anti-autoritaria, ma propone un
an-autoritarismo, paritario. Per questo occorre analizzare attentamente l’idea
di parità e la sua prassi quotidiana prima di addentrarsi in una qualsiasi
progettazione scolastica. Il rimedio all’autoritarismo non sta nella lotta
contro l’autorità, ma nella lotta per la parità.
Che cosa pensa dell’integralismo
religioso? Perché serpeggia una certa ricerca di dogmi e di credenze forti e
totalizzanti? E che influsso può avere tutto ciò tra i giovani?
L’autoritarismo
è un circolo vizioso connesso con l’integralismo. Deriva dagli stati di
scarsità in cui per sopravvivere occorreva chinare il capo ed accettare il
potere. Il potere si costituisce in comando, creandone un’origine sacra. La
sacralizzazione fa uscire il potere dal territorio delle verifiche empiriche,
lo trasferisce in uno spazio irraggiungibile, in ogni organizzazione
indebolisce l’efficienza perché insegue il mito di una dipendenza dello
psichico dal fisico e dal meta-fisico. L’integralismo rende inesistente lo
psichico e lo assoggetta. Nella scuola questo è esiziale. Nei giovani questo è
molto dannoso perché nelle età piccole il bisogno di dipendenza (e
controdipendenza) è elevato e rischia di fossilizzarsi. L’adolescenza della
ragione può portare allo sviluppo e all’espressione emotiva, oppure può portare
al blocco dell’emozione e alla sua repressione progressiva. L’integralismo e la
totalizzazione consistono spesso nel rigetto delle emozioni e nella
soppressione della soggettività. Ma non credo che i giovani di oggi ne siano
affetti particolarmente.
Come
sviluppare allora il momento di snodo an-autoritario che stiamo vivendo?
Cominciando ad
uscire da snodi autoritari, come quello che vede l’autoritarismo come più
efficiente della parità. Non è vero. Certo avere un milione di schiavi facilita
l’efficienza di un tiranno, ma la sua felicità non aumenta per questo. Il
dominio non aumenta il benessere dei dominanti quando diminuisce il benessere
dei dominati. Lo stato di parità migliora le condizioni di vita di tutti, anche
quelle degli ex dominatori.
Lei
ascolta musica? Quale e perché?
Sono un
melomane. Mi piace tutta la musica! La ritengo una fonte di comunicazione tra
gli uomini, e un modo insostituibile per gestire l’ansietà, la paura del
futuro, della punizione, dell’inferno minacciato dal dominio per sottomettere
gli altri. Il discorso sulla musica è un discorso bello che la scuola dovrebbe
sviluppare di più. Sono stato da giovane tra i fondatori della Gioventù
musicale d’Italia, con una pubblicazione che trattava della musica come di “un
ponte” tra la gente e i ragazzi di allora. Credo che questo continui ad essere
oggi vero, ma che la scuola abbia perso un’infinità di occasioni per fare della
musica di qualunque genere un pilastro della propria funzione di sviluppo delle
nuove generazioni.
L’interculturalità, l’accoglienza
e lo scambio, che pure dovrebbero essere un fattore di crescita e di
arricchimento, sono vissuti da molti con forme di chiusura che denunciano una
paura di fondo. In che modo la cultura del “gruppo” potrebbe essere d’aiuto?
Il pluralismo
dei gruppi propone parità e abbondanza. Il dominio lo descrive come
conformismo, ma è invece più creativo del dominio. Un gruppo crea situazioni
più creative, abbondanti e benestanti. Ma il dominio punta sull’individualismo,
sull’oggettività e sulla sacralità. Il gruppo deve proporsi come trasparenza.
Che cosa pensa di chi vede la
nostra attuale società come una massa di individui dediti all’individualismo
più sfrenato?
Non credo che
questo sia vero. L’individualismo è prodotto e diffuso dal potere-dominio per
avere maggiore privilegio. Oggi l’individualismo è minore che in passato. Le
sue radici sono preoccupanti perché trovano posto nella solitudine. Il gruppo,
rimedio della solitudine, propone la compagnia di un plurale e non di un singolare,
cioè di un individuo.
Parliamo del suo libro Il buon lavoro. Contiene delle utili e stimolanti indicazioni per tutti i settori del
lavoro umano. Un paragrafo dell’ultimo capitolo è dedicato alle organizzazioni
sindacali: Lei scriveva che sperava ed auspicava lo sviluppo della soggettività
sindacale in Italia. Alla luce degli ultimi fatti, che cosa è successo secondo
Lei? Nella scuola, con l’autonomia, sono state introdotte le rappresentanze
sindacali che sono ancora in rodaggio, per così dire.
Il sindacato,
nato dal pluralismo, stenta a sviluppare la soggettività perché è un prodotto
della società povera e malestante. Il malessere ha dato forza al sindacato
passato. Il benessere la toglie al sindacato presente. Il futuro creerà il
sindacato del benessere. Ma oggi siamo in presenza spesso di un integralismo
sindacale che rafforza il dominio e combatte la parità; un sindacato
autoritario dentro e anti-autoritario fuori. Ma in futuro l’idea di parità si
farà strada anche nel sindacato. O cambiare o morire. Un buon sindacato non
basta più. Occorre un bel sindacato.
Se ne ha voglia, ci spieghi
perché abbiamo tanto bisogno di sorrisi da non distinguere chi ce li fa?
Perché si
sorride poco, si vuole poco bene, si ha paura della propria debolezza.
Sorridere dichiara il desiderio di qualcuno. Il sorriso è sempre una promessa,
un fatto estetico futuro, un’accettazione da parte altrui, una costruzione di
sicurezza e un rallentamento di colpevolezza. Il sorriso è una bocca che si
apre, una speranza di efficienza sociale, cioè di benessere diffuso. È un
messaggio promesso, ma non si sa a che scopo. Si sorride ai bambini, alle
persone care, ai propri dipendenti fedeli.
Cos’è
per Lei la politica? Per dove passa oggi l’impegno politico?
La politica per
me è l’agevolazione, il coordinamento dei progetti per la produzione di
benessere soggettivo. È quindi una produzione di benessere tramite relazioni.
La politica per me costituisce e inventa benessere per la comunità. Ma dovrebbe
cambiare natura dichiarando quello che persegue e perseguendo quello che
dichiara.
Ha detto Eduardo Galeano che il
secolo scorso era “finito in modo triste e freddo”. Il rischio della “società
dell’abbondanza” è anche quello di far diventare tristi e freddi?
Io non credo che
il 2000 sia finito in modo triste e freddo. Quello che sta succedendo è la
transizione da cose assodate a cose provvisorie. Stiamo vivendo così una
gradevole progettazione delle utopie. E proprio Eduardo Galeano ha scritto che
l’utopia è come l’orizzonte: più tu ti avvicini e più lui si allontana, ma così
tu sei sempre in movimento. Così è per me oggi la politica. Così è oggi la
scuola: un orizzonte e un’utopia che ci fa stare sempre in movimento.