Napoli - Udine


racconto



7 ago.
Partenza per Udine alle 15,20. Tensione in casa: Elena mia nipote è arrabbiata perché vado via. Il suo nervosismo alla fine è tutto compresso in una serie di battute su argomenti di nessuna importanza del tipo:
È tardi, perché non parti domani?”
A quest’ora si arriva per il pranzo?”
Avevi promesso che non saresti mai andato via. Ma tu non mantieni le promesse, si sa.”
La lascio parlare, non è il momento, so il fatto mio. Intanto camminando inciampo in un busta zeppa di libri che devo portare con me. Lei pensa che vado via per sempre, ne è sicura, io non lo so. Poi risolvo la questione in qualche modo.
Alle 23, 20 arrivo a Udine. Corsa a casa di don Rafele per prendere le chiavi che serviranno la mattina dopo.
Albergo, notte.

8 ago.
È tardi. Corsa per arrivare alla casa. Apro la porta, prima impressione: uno schifo.
Arrivano i traslocatori, iniziano i problemi. Non si può usare il montacarichi, i balconi sono in cemento e non c’è l’appoggio, bisogna salire tutto a mano, al quarto piano. Su cinque, tre di loro sono stronzi, fanno tutto senza voglia, rompono una serie di lampade, e anche un quadro su vetro raffigurante san Giorgio. È vero, non aveva nessun valore ma per me contava moltissimo. Pur di non perdere altro tempo ci passo sopra e non mi arrabbio, nel senso che non li mando a ’fanculo.
Ci mettono un’eternità, con una pausa per mangiare finiscono alle 16.00. Io offro il caffè, vado al bar di fronte sulla strada alberata. Sento che il proprietario è meridionale, e allora cerco di fare il simpatico, dico che sto traslocando nel palazzo di fronte. Non gli fa nessun effetto, continua a fare i caffè, neanche si volta a guardarmi. O non è meridionale o si è integrato bene o forse sta solo per i cazzi suoi. Confusione che aumenta nell’andare avanti e indietro. Dal ferramenta tre volte, mi sento come uno scemo che fa sempre la stessa strada perché non ne conosce altre (ma uno scemo, umanamente che deve fare?). Faccio una serie di telefonate.
Sera a mangiare la pizza offerta da don Rafele. Abbuffata tremenda. Pizza senza sapore, ma
mi sono complimentato.
Don Rafele si è trasferito dieci anni fa a Udine con sua moglie per seguire i figli che si sono sistemati tutti da queste parti. Dopo due anni sua moglie è morta e lui è rimasto qui. Tornerebbe volentieri a Napoli se potesse, ma non ha il coraggio di farlo, per stare vicino a figli e nipoti. Lo vedo stanco, è una persona vera, mi piace. Mi racconta storie ed episodi della sua giovinezza facendo dei salti nel tempo tremendi. Bellissimi.
A letto penso che vorrei leggere, prendere appunti, progettare qualcosa. Quando hai troppe cose in testa non fai niente, mi attengo rigorosamente a questo pensiero giustificando meschinamente la mia pigrizia. Mi coccolo da solo e faccio finta di aver ragione così mi addormento con il sorriso sulle labbra, un angioletto con la pancia gonfia. (Non vorrei aprire polemiche inutili, ma la pizza a Udine gonfia di più. Sarà l’acqua)

9 ago.
Pacchi dappertutto. Cerco di montare alcuni lampadari, ma non funzionano, non l’ho mai fatto in vita mia. Malumore che sale. Scopro, ma non c’era bisogno, che fare questi lavori non mi piace. Li aveva da sempre fatti per me mio fratello morto Pasquale ( vedi un po’ che scherzi mi combini? proprio ora dovevi fare quello che hai fatto?). Dormo, leggo, perdo tempo. Però, è il primo giorno senza l’assillo di qualcosa da fare e senza un orario da rispettare.
La sera un’ora al centro. Tra folla schiamazzo grida traffico e calma pace tranquillità poche persone tu che sceglieresti? Mi si ficcano all’improvviso nel cervello alcuni pensieri: la calma spegne la fantasia. La Svizzera e il benessere sono la morte della creatività, il Sudamerica e la precarietà la attizzano. ( Qualcuno le avrà dette, giuro, perché le ho lette). Intanto, giro lo sguardo nella piazza per capire dove potrebbe essere il sud, in senso geografico. Malumore alle stelle.

10 ago.
C'è un giornata senza sole e non mi dispiace.
Di fronte alla finestra dove scrivo, sullo stesso piano, persiane che si aprono e si chiudono ma non vedo mai chi le manovra, saranno elettriche e un bambino da dentro si diverte con pulsanti e telecomandi? (Scoprirò che ci abita una coppia, la donna ha dei seni da maggiorata. Non scoprirò, invece, chi manovra le persiane, penso non lei, e non con i seni, spero. Anche se…).
Mail di Ivano Storiani e invito a partecipare ad un’antologia di racconti o giù di lì. Qualcosa di concreto da fare, per cui dovrei impegnarmi. Un segnale positivo? Una chiamata alle armi? Un inizio coi fiocchi? Ma vaffanculo a me stesso, mi viene da dire, sempre esagerando un po’, pardon.

11 ago.
Si parte per le vacanze. Non voglio pensare a Udine, non voglio pensare a niente. Ho voglia di sedermi in un bar all'aperto a leggere il giornale, prendendo un caffè. E pensare ai fatti miei. Ma quali fatti? E tra i fatti, quali sarebbero poi i miei? Tali cioè da farmeli sentire di mia proprietà? Sono confuso. (In effetti seduto al bar mi metterò a contare sull’agendina tutte le volte che ho pensato o fatto alcune cose... ma non posso dire quali. Il numero che viene fuori mi dà soddisfazione, e questo basta).
Ho un dubbio: ma io partecipo o no alle cose che mi capitano? Per il solo fatto di aver concepito tale dubbio, dovrei aver paura di me, ma anche per me. Beh, non esageriamo. Dovesse andar male, dovesse riscontrarsi un’incompatibilità climatica, una guerra nucleare circoscritta, una peste bubbonica in Friuli, potrei sempre tornare da dove sono partito.
(Diceva un amico… un amico? uno stronzo che per comodità chiamo amico, l’importante è avere un tetto di proprietà sopra la testa. Il problema è che il mio tetto sta a troppi chilometri di distanza da dove vado a vivere… vivere? a campare, tirare avanti, tirare a campare. Va beh, ora basta, mi sto complicando inutilmente le frasi, le idee, tutto).



30 ago.
Rientro dalle vacanze. Si riprende, non mi sono riposato per niente. Si dice sempre così. Potrei interpretare questa mia volontà di uniformarmi alle cose che si dicono come proposito di rientrare in un gruppo, far parte di qualcosa? Ma non voglio.
Intanto, stanchezza. Dormo. Leggo. Telefonato ad un amico, l’ho sentito contento. Ha detto che sarebbe bello vedersi per fare qualcosa insieme, produrre un’idea, fare un progetto. Concludo che bisognerebbe darsi una mossa ma intanto sono disteso sul letto, tra giornali, riviste, libri e il caldo che quest’anno mi è indifferente…più o meno.

4 sett.
Sono tornato da quattro giorni.
Ho finito Camorra in vacanza, da allora non ci avevo più pensato che è un libro di una tristezza infinita, che non lascia nessuna speranza. Come le mie sensazioni di oggi. Sto a scuola seduto con i nuovi colleghi a fare cose che non facevo più da troppi anni. Una volta ero responsabile di qualcosa, ora sono solo l'ultimo arrivato. È bello pensare che invece di migliorare la mia condizione lavorativa la peggioro. Dovrei complimentarmi con me stesso:   “Bravo, lei è un gambero perfetto. Noi sa? diciamo gambero per non offendere la sua sensibilità ma abbiamo altro in mente”. 
“Grazie, grazie”, rispondo io, rosso in viso, ma non ho capito l’ultima parte della frase.
Nel gruppo dove mi ritrovo per non so quali proposte sulla programmazione dell’offerta formativa, una collega carina mi chiede: 
“Allora, come ti è sembrata la prima riunione con tutti i capi?” 
Rispondo con troppa enfasi: 
“Niente di nuovo sotto il sole, cose già viste da altre parti” riferendomi alla dirigente e al suo staff. L’unico collega maschio presente fa una battuta del tipo: 
“Invece credevo che fossimo in una riserva indiana”. 
Io non so se ridere, piangere o sputargli direttamente in faccia, ma realizzo, anche se non vorrei ammetterlo, che la sua risposta è migliore della mia entrata e quindi faccio finta di non aver sentito.
Sarà, ma dopo una battuta così mi aspetto chissà che cosa, mi preparo mentalmente a controbattere, a farlo pentire di essermi capitato a tiro, a vederlo schiacciato e piangente contro il muro. E invece da quel momento il collega mi diventa mansueto, amichevole e mediocre.
Chissà, forse, gli avrò spento la fantasia con la mia noncuranza? Cazzo, che responsabilità.



5 sett.
È come se fossi in apnea, sento il rumore dell’acqua che batte alle orecchie creando un sottofondo monotono e stancante. Che mi sta succedendo? Mi sveglio di soprassalto, corro in bagno e nello specchio provo a sorridere, ma l’immagine che viene fuori mi fa venire i nervi. Le guance cascanti mi fanno tanto serio che mi spavento da solo. Qua, penso, se non cambio in fretta tattica, invecchio alla velocità della luce (cazzo dico? invecchio più velocemente e basta). Così i miei vecchi amici avranno un altro motivo per pensare che avevano ragione (lo spiego dopo). Giuro che non darò loro questa soddisfazione, tirerò le guance in su, mi allenerò al riso, mangerò il riso (che non c’entra ma mi piace), mi farò fare una plastica facciale se è necessario, dovesse essere l’ultima performance della vita, come un attore fallito quando li vedrò esibirò un sorriso idiota a trentadue denti seppure un po’ ingialliti.


6 sett.
Gita per “prendere” la carne in Slovenia, sono appena trenta chilometri, e poi facciamo anche benzina, dice don Rafele. Sbagliamo un paio di volte direzione, ma ritroviamo subito la strada giusta. Non ricordo neanche il nome del paese appena dopo la frontiera. Mentre andavamo su queste strade a me è venuto una sensazione di desolazione infinita. Incontriamo pochissime persone, la macellaia è una ragazza senza sorriso, intorno un senso di abbandono sconcertante. La farmacista, perché lui deve prendere alcune medicine che qui costano meno, lo stesso senza sorriso. Che sia successo qualcosa di enorme e grave e io non lo so. O semplicemente sono così solo due persone, le uniche che ho incontrato. Mi è venuta la malinconia, altroché. Paesi che si assomigliano senza soluzione di continuità, io che non so che fare, non riesco a capire cosa fare, stamattina, a parte, non trovo motivi di interesse particolare.


7 sett.
E così veniamo a noi. L’interessante si materializza e le disgrazie non capitano mai da sole. Arriva il giorno del corso di aggiornamento a scuola, ne sentivo un bisogno tremendo e finalmente posso appagarlo. La sintesi in una domanda ( chiedo uno sforzo a chi non è della materia): “è mai possibile che ci siano persone che hanno voglia, ancora, di dire un sacco di stronzate sulla differenza che passa tra una unità didattica e una unità di apprendimento?” Sembra di sì. La relatrice mi chiede alla fine un passaggio per la stazione. È di Milano, la accompagno a prendere le valigie al suo albergo che sta sulla strada. In macchina, non so perché, per fare il simpatico e non stare zitto, le dico un sacco di stronzate del tipo, “a Napoli non si può più vivere, la camorra sta dentro tutto, che si vive nell'illegalità diffusa, che ormai non c'è più niente da fare”. Appena scende, poco più avanti, fermo la macchina e assaporo tutta intera la sensazione di sentirmi uno stronzo che più stronzo non si può. Arrossisco da solo in macchina per la vergogna. Poi penso che in fondo lei ha detto stronzate per tutta la mattina, io solo per quindici minuti, al massimo. Ho perso un’occasione, però. Potessi tornare indietro, le farei vedere la fantasia, il calore, il sole, il mare e la nostalgia di chi sta lontano, cantandole una bella canzone napoletana, lì, in macchina. Chissà, forse le inietterei un po’ di spirito sano e qualche dubbio su quello che va dicendo? Dubito, invece, che il mio comportamento reale abbia prodotto qualcosa. (La canzone che le avrei cantato, tanto per precisare, l’avrei scelta dalla triade: O’ sole mio, Funiculì Funiculà, O’ surdato ‘nnammurato).

8 sett.
Primo giorno di scuola. I ragazzi di tutti i paesi e di tutte le latitudini del mondo sono uguali. Stesse facce, stesse espressioni, stessi sentimenti. Io la penso così, non posso farci niente.
Telefona un collega che insegna inglese, mi dice che avrebbe deciso di accettare la scuola dove insegno io perché si è liberato un posto, e mi chiede com’è la dirigente? Gli dico:
"Guarda che ora la mia scuola sta a Udine”. 
“Udine?” dice lui. “Che cazzo ci fai lassù?” 
“Te lo spiego un’altra volta”, dico, “non ti sento bene”, e chiudo la comunicazione. (Avrei dovuto dire "non mi sento bene", che è la verità, ma devo pur andare avanti).

30 sett.
I giorni a scuola passano così, io accelero un po’ e già mi vedo alle grigliate, a qualche raduno, con il mio mezzo bicchiere di vino che chiacchiero con i colleghi. Caccio un urlo nella testa e blocco questa fantasia. Intanto, però, qualche riflessione su un cambiamento così forte, dovrei pur farla.
È tutto un altro mondo”, “Si cambia radicalmente stile di vita”,” È una dimensione a cui non sei abituato”, “Sono scelte che si fanno in gioventù”, le parole che mi sono state regalate prima della partenza. Le tengo ferme lì, in un angolo, ogni tanto le prendo fuori, me le ascolto e poi le ripongo di nuovo.
Su tutte le frasi ricordo questa: “non può andare bene, ma sei testardo, se non ci vai con le mani dentro e capisci l’errore non torni indietro”, detto da una dirigente neanche tanto male. Ed anche: “Ma che cazzo ti viene in mente?” detto da un cugino imprenditore con l’espressione neanche un po’ occultata di chi pensa l’avevo sempre detto che eri scemo.
Certo, valutando queste voci non ci vuole nessun coraggio a staccarsene per sempre nei secoli dei secoli e amen.

4 ott.
Arriva il giorno del mio onomastico. Pizza con la famiglia di amici udinesi ma di origine meridionale che mi hanno accolto. In pizzeria le telefonate solite di auguri creano l’effetto importanza. Ogni volta che passa il proprietario, neanche a farlo apposta, squilla il telefono. Io rispondo in napoletano con ampi sorrisi. Il proprietario e il pizzaiolo si fanno cenni con la testa e sorridono anche loro. Non so come, ma partecipano anch’essi a questo momento di contentezza. Ormai sembra che mi attacchi a queste cosette che una volta avrei considerato ultrameschine. Ma poi, perché sarebbero meschine? Che vuol dire? Niente, non vuol dire niente.
Chissà dove andrò a finire? in quale burrone mentale finirò ad esalare l’ultimo respiro tra pietre insanguinate e terriccio umido?

Fine ottobre
Faccio passeggiate per le solite strade che poi mi diventano brevi e corte, come mi è sempre capitato, finché non scopro lentamente che posso anche cambiare itinerario e allora mi si aprono spazi e sentimenti nuovi, al pari delle strade che percorro per la prima volta. Nella grande città, comunque, è meglio o peggio? Chi lo sa?
Grande o piccola che sia la città, resta il fatto che sono lento di comprensione, ci metto secoli a capire i miei comportamenti sbagliati o negativi. Nelle passeggiate come nelle altre cose. Poi, quando capisco, vado bene, spedito. Ho bisogno di una spinta, che ogni tanto, menomale, provvedo a darmi.

Novembre
I lunghi pomeriggi che avevo immaginato a scrivere con la vista sul viale e sugli alberi non ci sono. Mi siedo solo quando devo per forza o la sera, ma al massimo per mezz’ora. Sono impaziente, perdo tempo dietro le mie statiche fantasie malamente aggiornate, tutto preso da sensazioni e sentimenti che non mi lasciano far niente. Vivo dentro l’ultimo verso dell’Infinito di Leopardi, che diventa il mio inno, la mia bandiera, il mio credo. Ci sono immerso fino al collo. E di questo non mi faccio nessun problema. Sento a tratti che tutto ciò è assurdo. Intanto seduto mi sento bene, scrivo due o tre cazzate e aspetto, aspetto, aspetto, non so bene cosa, l’ispirazione o forse qualcuno che mi prende per il bavero della giacca e mi butta fuori, come un qualsiasi importuno, malcapitato, demente.

Ho conosciuto Mimmo che insegna italiano come me. È di Gaeta, sua moglie, Ariella, è di Trieste. Con lui a scuola mi trovo molto bene. È veloce e mi asseconda, non mi guarda smarrito e non ha bisogno di spiegazioni aggiuntive. Quando prendo in giro le colleghe si fa un sacco di risate, ci facciamo un sacco di risate. Lui è un pazzo scatenato con l’insegnamento, fa tutto il programma attraverso testi classici e rappresentazioni teatrali, i ragazzi sono contenti.
Mimmo mi dice che è entusiasta di Udine e del Friuli. Ha quarant’anni, si è sposato a settembre scorso, ha fatto la SIS qui e ha conosciuto sua moglie. Dice che al sud non aveva fatto niente, stava sempre in crisi, che qui ogni sera va ad uno spettacolo o ad ascoltare musica. Si muove molto, non sta mai fermo, deve recuperare i trentasei anni che ha trascorso al sud. Beato lui.

4 sett. di un anno dopo
Prospettive assolutamente cambiate. Forse so, credo di sapere, per la prima volta che cosa sto facendo. (La verità è che non so un cazzo, sto facendo solo il buffone). Ma dovrei anche ricordare un po' di più a me stesso, per convincermi che... che il mio accento campano-napoletano piace, c'è una collega che ripete:
“Mi fai morire quando dici pascqua, nisciuno, ascpetta”, tanto che la bacerei all'istante se non fosse così lontana. 
Ma torniamo a noi, potrei dire a mia discolpa che lo scorso anno non ero consapevole di me, neanche un po’. Non avevo la mia solita malinconia autunnale, che è una compagnia conosciuta e rassicurante e a cui sono molto affezionato. Ero preso da altro. Ora le cose sono cambiate finalmente e sto assaporando la parte peggiore di me che coincide con la parte migliore (vammi a capire, se ci riesci). Non so che dire. Ora almeno è tutto più realistico, meno stupido. Ho un sacco di domande e poche risposte, anzi, quasi nessuna. Vuol dire che devo lavorare per trovarle. Le risposte, dico. Mi sembra, quindi, “che tutto vada nella direzione giusta. Quale? Semplice, la direzione del…sole”.

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