racconto
• Uscito su Fam- Frenulo a mano_Rivista di letteratura
Sono morto, così,
all’improvviso. Va beh, proprio all’improvviso no, ma quasi. In effetti ci ho
messo un anno ad andarmene. Prima mi venne una occlusione all’arteria della
coscia destra. Il mio medico di base, una ragazza più che altro ignorante che
me lo dicevano tutti (ma io ci ero affezionato perché mi ma
dottore, la dottoressa mi ha detto… Lui sorrise e fece con le mani
il gesto... ma che le ha detto la
dottoressa? (ma quale dottoressa? mi faccia il piacere!). Mi curai un
paio di mesi da un dottorazzo che andava di moda nella cerchia delle conoscenze
(nel senso che era considerato). In pratica ogni settimana si prendeva cento
euro e mi diceva che andava tutto bene. C’erano periodi che mi sentivo stanco,
ma la dottoressa che continuava ad essere la mia dottoressa (sempre perché
nonostante tutti mi dicessero che era ignorante mi trattava bene) diceva che
non dovevo preoccuparmi. Io ogni tanto, per la verità, mi preoccupavo. Poi però
non avevo tempo per farlo: i figli, il lavoro, mia moglie. Così all’inizio
dell’estate mi sentivo così stanco che non so neanche descriverlo. La domenica
eravamo andati al mare a vedere la casa che avremmo preso ad agosto e un poco
mi ero dimenticato della stanchezza, ma ce l’avevo. La mattina dopo al lavoro,
in fabbrica, caddi a terra e prima di svenire ebbi dei movimenti del corpo
inconsulti, disarticolati, incontrollabili. In ospedale un altro dottore mi
disse che era ischemia cardiaca dovuta alla mancanza di acido folico nel
sangue. Quello che fino ad allora mi aveva curato (quello considerato) si lavò
le mani, mi disse che non era materia sua, che doveva rivolgermi ad un
neurologo. Presto mi sarei ristabilito, lo dicevano tutti. Io non so perché
decisi di chiudere per sempre alcune mie cose. (Alcuni capitoli, pagine aperte,
paragrafi sparsi li misi in una cassetta, li chiusi a chiave, e poi buttai la
chiave e pure la cassetta). Questo lo decisi mentre ancora stavo in ospedale.
In effetti avevo un sacco di lavori che dovevo finire, ma non ce la facevo. Il male stava dentro di me… anche nei
polmoni con tutte le migliaia di sigarette che mi ero fumato, sulle bronchiti
che non mi ero mai curato… ero stanco fisicamente, ogni cosa dovevo farla con
sforzo, non mi veniva di farla altrimenti. Se fosse stato per me, me ne sarei
stato a letto disteso, senza fare niente, che è stato sempre il mio grande
progetto negato. Fin da bambino ho dovuto lavorare. Soldi pochi, ma quali
soldi? in famiglia, con mio padre che vendeva la verdura alle signore di un
quartiere bene della città: lo sentivo che faceva partire a fatica, quando era
ancora notte, il suo motocarro a tre ruote, e via incontro alla sua avventura
quotidiana del valore di poche migliaia di lire (allora). Io, una scuola
professionale e diventai tecnico, subito. All’esame dovevamo trovare il guasto
ad un apparecchio radio. Lo trovai dopo neanche dieci minuti, staccai gli altri
di varie ore. Il lavoro di tecnico andò subito bene, mi chiamavano tutti, mi
volevano bene, non chiedevo la luna. Aggiustavo quello che capitava, radio,
stereo, TV e video, poi computer, e ancora antenne e impianti elettrici. Ma
sapevo fare tutto.
trattava bene)
continuava a dire che era un dolore muscolare, fino a quando una mattina non
potevo scendere dal letto, la gamba era diventata enorme e pure il dolore. In
ospedale il dottore mi chiese se volevo aspettare che la gamba diventasse una
palla prima di allarmarmi. Io, gli dissi,
Mi ricordo le prime uscite con la ragazza che è diventata mia moglie e la madre
dei miei figli, tre amati figli, il mio orgoglio. Il sogno di diventare
proprietario di una casa, di averne una tutta per noi, come la fantasticavamo
io e Maria. Con i primi soldi mi iscrissi ad una cooperativa, e cominciai a
pagare, lavoravo di notte, fin quasi all’alba, fino all’ora in cui mio padre
usciva con il motocarro. Avevo pagato molte rate, più di venti milioni di
allora e una sera mia madre mi accolse piangendo. Mia sorella era incinta e
doveva sposarsi al più presto. Il fidanzato aveva la casa, ma tutto il resto
doveva farlo la mia famiglia, è un’usanza, una incombenza che se non fai non
sei degno.
E non ti preoccupare, dissi a
mi madre, faremo bella figura.
La mattina dopo andai dal presidente della cooperativa e vendetti la mia quota,
in fila ce n’erano decine che volevano entrare con i soldi in contanti. Così
anche mia sorella era sistemata. Io iniziai ancora con più rabbia, con
caparbietà, volevo dimostrare a Maria che pensavo anche alla nostra futura
famiglia, mi iscrissi ad un’altra cooperativa che stava allora nascendo.
Ricominciai da capo a lavorare di notte. Poi ci fu l’occasione di entrare in
fabbrica, e diventai specializzato nella taratura dei macchinari elettronici.
Fu un’altra scommessa. Appena finito l’orario di fabbrica iniziava quello delle
corse per aggiustare apparecchi di tutti i generi, bastava che avessero un
congegno, sia meccanico che elettronico e io mi ci infilavo dentro con le mani
e con gli occhi, consultavo schemi, leggevo schede, e alla fine li facevo
funzionare.
In fabbrica cominciai a impegnarmi nel sindacato, le condizioni di noi
lavoratori, come ci trattavano i padroni, i capi, mi facevano andare in bestia.
Ero sempre pronto a difendere chi non sapeva farlo da solo, organizzavo
proteste se si mancava ad un impegno preso, se si tardava ad eseguire un
accordo. Fui eletto delegato sindacale, ebbi un poco di notorietà, mi cercavano
tutti. Cercavo di stare dietro le cose, ma non ce la facevo, facevo finta di
farcela ma boccheggiavo. Era nato il mio primo figlio, la casa era nostra,
anche se dovevo ancora finire di pagare e una notte mi chiama l’altra mia
sorella in lacrime. Il suo fidanzato aveva avuto un infarto ed era morto, a
trent’anni. La consolai per bene, la aiutai, cercai di farla distrarre nel
periodo che seguì, mi impegnai a trovarle un lavoro. Ma cominciai io ad aver paura
di uscire da solo. Appena mi trovavo solo con me stesso mi girava la testa,
diventavo ansioso, non riuscivo a calmarmi. Cercai di mascherare questo
problema ma lo dissi subito a mia moglie. Di dirlo agli altri ebbi paura. Mi
arrangiavo, nel tragitto per il lavoro cercavo di andare con qualche collega,
poi una volta seduto mi facevo assorbire da quello che nel momento stravo
facendo e diventava una lotta per non smettere di lavorare.
Passò qualche anno così.
Nel frattempo era nato il mio secondo figlio, la casa l’avevo quasi finita di
pagare, il lavoro non mi mancava mai e l’impegno nel sindacato aumentava. Non
sono mai riuscito a dire di no se un amico mi chiedeva qualcosa, un favore, ma
anche se a chiedermi qualcosa era un conoscente o uno che non conoscevo
affatto. Mi sono sempre entusiasmato ed ho partecipato veramente a tutto quello
che le persone stavano facendo nel momento e se andava bene qualcosa a loro mi
sentivo anche io felice e in qualche modo riappacificato col mondo. Non mi è
mai andato di lasciare le persone bisognose al loro destino. E così quando il
partito comunista si divise in PDS e Rifondazione comunista, con naturalezza
andai con Rifondazione. Non mi andava di abbandonare al loro destino i deboli,
quelli che non comanderanno mai, i figli degli operai, degli immigrati, la
povera gente. Vedevo, avevo la convinzione che questi non perdessero più tempo
con ‘le sciocchezze’ perché bisognava conquistare il potere. Quando pensavo
tutto questo ci soffrivo. Erano loro i peggiori nemici miei, quelli che un
tempo mi avevano fatto credere che la pensavamo allo stesso modo. Allora,
pensavo, forse, non l’abbiamo mai pensata allo stesso modo. Ma, alla fine, chi
deve occuparsi di questi qui, dei perdenti? Li lasciamo al loro destino? Il mio
rovello era questo. Lo esposi in parecchie assemblee pubbliche e così, mio
malgrado, divenni il referente locale del partito. Mi piaceva essere a
disposizione degli altri. Quando nacque il mio terzo figlio lo volli chiamare
Fausto, perché era un bel nome beneaugurate e perché il segretario di
Rifondazione, con cui più di una volta avevo discusso, portava quel nome.
Non so se fosse illusione o che, ma ad un certo punto sentivo che potevo
affrontare tutto e tutti, non mi faceva paura niente. Mi misi a scrivere, io che
con l’italiano non avevo mai avuto a scuola un grande rapporto di stima e
reciproca fiducia, prima una relazione per il congresso di sezione, poi mi misi
ad inventare slogan per il partito e poi testi per manifesti, avevo voglia di
dimostrare a tutti che non solo i soliti intellettuali sapevano scrivere
quattro chiacchiere, e per questo se la tiravano come chissà che, io sapevo
scrivere pure meglio di loro se volevo, se mi mettevo con la testa e col
pensiero. Mi bastava sapere che se avessi voluto avrei saputo farlo. Comunque,
anche in questo periodo venivano momenti che mi sentivo tanto stanco che non mi
uscivano le parole e un giorno iniziai a vedere doppio. Mia moglie si spaventò
più di me, ma non è niente mi disse l’oculista e poi anche la mia cara dottoressa,
un po’ di stanchezza ci sta, sarà il tempo, sarà la stagione, sarà quel che
sarà.
Invece, arrivò la mattina che mi venne un dolore così forte alla testa che se
avessi avuto una pistola mi sarei all’istante sparato. Feci per alzarmi dal
letto ma caddi a terra svenuto. Sì, era arrivato l’ictus, il primo della serie.
Finii in coma, uscii dal coma. Non riuscivo ad articolare le parole, una grande
nebbia mi avvitava il cervello, una nebbia che conoscevo, qualche volta l’avevo
avuta negli anni, ma poi era scomparsa, era evaporata, ora invece la sentivo
più spessa, meno volatile, era più difficile che evaporasse, sentivo. C’erano
un sacco di persone di famiglia che cercavano di farmi ridere e a me mi
facevano solo paura, ma come, mi chiedevo, io sto male e questi qui invece
fanno finta di niente, ma che sono scemi? Forse non sono scemi, solo non vedono
che io capisco quello che penso, e non riesco a dire, meno male, niente di
quello che penso. Ma poi mi stanco e mi stanco e vorrei uscire e vorrei alzarmi,
ma una parte del corpo non funziona, sento che non funziona, sento che non
risponde, che sta lì ferma e zitta. Le parole non mi escono allora piango
perché non mi faccio capire, e poi quando vedo qualcuno che mi ricordo allora
mi viene da piangere, ma così voglio dire che mi ricordo di quando stavo bene e
abbiamo fatto tante cose insieme, siamo andati ai concerti, siamo andati in
gita, siamo andati al mare, siamo andati alle manifestazioni, ma non mi riesco
ad esprimere… È come un lampo, sento che non sto bene e allora mi metto a
piangere, voglio tornar bambino. Piango perché non parlo, comunico con le
lacrime no?
E poi mi lamento, me la prendo con tutti, perché, mi domando, è venuto quello
che mi è venuto proprio a me, che ho fatto di male per meritarmi questo? Allora
voglio lamentarmi, far capire che non ci sto, non voglio starci, perché dovrei
starci? E mentre mi lamento sento di essere vivo e non voglio interrompere
questo lamento e lo prolungo all’infinito, da quando mi sveglio ho voglia di
lamentarmi e lo faccio, e se mia moglie ogni tanto mi dice basta, per favore smettila, io smetto
pure per un attimo, ma solo per farla contenta, poi riprendo, voglio mostrare
che sono vivo, sto in vita col lamento. E intanto che lo faccio guardo queste
macchie di colore sfuocate, sembrano quei quadri dei pittori napoletani
dell’ottocento, tutte macchie indistinte, con le forme appena accennate che se
pure le guardi fisso non cambia niente, sono solo macchie. Ma quante macchie mi
tocca guardare…e ci sono pure squilli di telefono ogni tanto, ma chi se ne
frega, tutto questo è pura invenzione, è un incubo che passerà, mi sveglierò.
Va tutto bene.
Una delle ultime sere ho pensato questi pensieri. Li dico così, in ordine e in
disordine, a seconda dei punti di vista. Se per caso cominciate a capire che
nella vostra vita c’è qualcosa che anche vagamente assomigli alla mia vita,
ribellatevi, andate da medici più competenti, fate una dieta ferrea, deviate da
questa strada dritta che vi porterà alla morte, oppure o anche contemporaneamente,
datevi alla pazza gioia, fate qualcosa che avreste sempre voluto fare e che non
vi siete mai permessi per decoro, buon gusto, troppa educazione, io non ho
avuto tempo di farlo e me ne rammarico. La seconda e ultima è questa: io ho
voluto essere coerente fino alla fine, mi sono offerto agli altri anche nel
dolore della mia sofferenza, potevo con l’espressione fare in modo che chi
veniva a vedermi soffrire se ne andasse per non tornare più, semplicemente
potevo far capire a mia moglie che non volevo vedere nessuno, ma non l’ho
fatto, ho voluto essere comunista fino in fondo e fino all’ultimo. Ma non è un
insegnamento, ognuno faccia un po’ come gli pare. Tanto, questa non è la
realtà, è un incubo che passerà. Va tutto bene qua.
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