racconto
( a J. Cortazar. I suoi estimatori
sanno il perché. Gli altri, lo immagineranno)
*
Quell’anno era tutto un
po’ così. Difficile. Anche da spiegare. Non avevamo ancora deciso come andare
avanti, se restare fermi o addirittura tirarci indietro. Come se avessimo già vissuto cento vite, facevamo i soliti discorsi più o meno
filosofici, copiati da altri, visti nei film, con l’aggiunta di quel tanto di
stupido che solo i giovani visti dai vecchi sanno aggiungere. Perché non la
facciamo finita? Ci chiedevamo, ma era più per darci un’ aria, nessuno lo
pensava veramente. Poi all’improvviso ci
venne addosso l’episodio che ci cambiò la vita. La nostra esistenza rimase in
bilico, sospesa nel vuoto per qualche tempo.
Dario morì all’istante
nonostante il casco. Fu sbattuto con violenza
contro un’altra auto che veniva dalla parte opposta e trascinato per
parecchi metri. Quando arrivò l’ambulanza non c’era più niente da fare. Io
ricordo con nitidezza la faccia di suo padre, alto imponente, un medico
conosciuto, con la barba curata e quasi bianca che chiedeva spiegazioni alla
polizia sulla dinamica dell’incidente mentre stavano adagiando suo figlio su di una
lettiga, lui lo aveva già visitato, e lo mettevano nell’ambulanza. La sua
faccia nella luce fioca della sera era
seria, pallida e con il terrore negli
occhi.
Alcuni di noi piansero
mentre raggiungevamo a piedi l’ospedale dove era stato portato. Poi, dopo il funerale, per una settimana al
solito posto di raduno nessuno di noi si fece vedere.
*
A Dario piacevano i
film, conosceva abbastanza cinematografia, era un cinefilo in nuce, come si
dice. Tra le attrici del momento, lui
aveva un debole per Paola Protagora, ne parlava sempre, a volte con enfasi a
volte invece quasi nascondendo questa sua predilezione e manifestando un certo
pudore, che non si capiva neanche il perché…del pudore, dico. Ma Dario era
fatto così, a volte enfatico a volte chiuso, prendere o lasciare…Era capace di
stare zitto ad ascoltarti su quello che avevi da dire, poi diceva la sua
all’improvviso. E così, mentre si parlava dell’attrice, magari aveva
incominciato lui il discorso, sparava:
“Paola ha stile, non solo attrice, non solo donna, ha qualcosa in più”.
Noi concludevamo:
“...è innamorato.”
Era vero, si capiva.
“Ha una voce stupenda”, pensavo io, e già entravo senza neanche
accorgermene nella schiera degli adepti,
di quelli che pensavano che lei fosse superiore, insomma degli innamorati.
L’avevo vista in tv
presentare programmi che neanche ricordo il titolo, ma era bella, si muoveva
sicura, con la faccia da donna anche se poi
il suo corpo era di ragazza ed era stupendo.
Qualcuno del gruppo era
sopraffatto dalla passione, non dormiva più, mangiava poco, girava in strada
perso nel pensiero di lei, tanto che gli altri, non tutti, per scherzare gli
dicevano …se Paola vede come sei ridotto, non uscirà mai con te. Uscire?
se…se.
Quel qualcuno ero io.
Certe sere dopo averla vista sullo schermo mi sentivo male, avevo il groppo in
gola, come un innamorato fantasticavo di poterglielo dire, di guardarla negli
occhi, di poter toccarla.
*
Lei la vedevamo passare
sullo schermo in tutti i cinema della provincia e ci spingevamo anche in città,
nelle periferie più insidiose ma non ancora pericolose, per vederla in qualche
fotogramma. Qualcuno di noi, il più stronzo, diceva che andavamo a vederla
recitare. A me della recitazione non mi importava un gran che, a me importava
il suo viso, guardare la sua faccia e il suo corpo. Di notte, poi, l’avrei
conciata io per le feste, avrei allargato a dismisura tutti i contorni della
pellicola in cui lei c’era e mi sarei intrufolato. Avrei avuto la parte più
importante, e tra tanti che la volevano, che la desideravano, di sicuro lei
avrebbe scelto me. Per me avrebbe lasciato il suo uomo, per farmi felice,
perché io, solo io, sapevo farla felice. Noi due avevamo un segreto che nessuno
conosceva.
Era nato tutto per caso.
Avevo detto al mio amico Franco che mi ero innamorato dell’attrice Paola
Protagora e come succede l’aveva guardata meglio e pian piano se ne era
innamorato pure lui. Ma io l’amavo di più. Ne ero certo, lui non la capiva, non
capiva il suo sorriso, la sua bocca, non capiva quanto era sublime quando ti
guardava e il suo accenno di sorriso, come fare a spiegare che per me era il
paradiso?
Poi lui lo aveva detto
ad altri che, non so come, anche loro avevano notato qualcosa, quella donna li
attraeva, non sapevano spiegarsi bene, ma il suo magnetismo agiva. Infine
eravamo in sette che giravamo come pazzi nei cinema a guardarla, anche in dei
film dove lei appariva per qualche istante. Una volta venimmo quasi alle mani.
Ero io il capofila, li avevo trascinati in una sera livida di gennaio, il cielo
scuro e cattivo, in un cinema brutto e sporco, lontanissimo, impossibile da
trovare. Lei aveva una porticina infima, quasi un’apparizione, e quando uscimmo
ci investì una pioggia infinita. Uno di noi, sembra Giorgio, ebbe il coraggio
di dire…”ma chi cazzo me l’ha fatto fare? Quasi non è neanche apparsa…”.
L’investii con tutta la mia furia, quasi me lo mangiai, se non mi fermavano gli
altri, ero pronto a picchiarlo. Per me quella piccola parte era sublime.
Perfetta la sua interpretazione, bellissima nel suo vestito bianco, diafana,
immortale. E poi, meglio se non aveva una parte importante, ero più libero di
inventare io di notte, non dovevo seguire uno schema stabilito da un ruolo
definito. Potevo inventarmi meglio tutte le situazioni che volevo, potevo
entrare io dove e quando volevo, senza sconvolgere la trama, tanto non c’era.
Anche se, per la verità, non ci avrei pensato due volte a sconvolgerla, la
trama, se per caso il suo ruolo in un film non mi permetteva di entrarci bene.
Poi diventò un problema
sempre più serio. Andavo di nascosto al cinema da solo per rivedere lo stesso
film, per rivederla di nuovo. Per lo più non lo proponevo neanche agli altri,
che comunque non mi avrebbero seguito. Lo dissi un paio di volte a Marcello,
che si limitò a sorridere, come per dire… "ma tu sei tutto scemo!”. Invece, una
sera venne Dario, un altro dei sette, a dirmi che aveva saputo che io inseguivo
Paola sugli schermi, e che rivedevo in altre sale lo stesso film visto con
loro. Pensavo che dicesse, devi farti vedere da un medico, che fosse
preoccupato. Invece si prenotò, mi disse, quando ci vai a rivedere il prossimo
fammelo sapere. Glielo dissi, venne una volta, poi non più. Io ero pure
contento, in fondo. Vivevo questo sentimento ambivalente per cui ero contento
che gli altri si interessavano a Paola, ma appena vedevo che si interessavano
troppo diventavo geloso, come tutti gli innamorati la volevo tutta per me.
Però, le sue frequenti
apparizioni in televisione in quel periodo le vivevo male. Era come se
potessero portarmela via in tanti, avevo molti più concorrenti ora. La vedevo
sempre volentieri sul piccolo schermo, ma non mi eccitavo più di tanto, sapevo
che non mi avrebbe potuto distinguere in quei milioni che la guardavano, in
tutta quella selva di occhi che le stavano addosso. Invece, nel buio della
sala, in un cinema di periferia, ero certo che tutte le sua attenzioni fossero
per me. E che i suoi occhi erano fissi nei miei, estasiati e sognanti.
Poi vissi un momento di
assoluto sbandamento. Lei interpretò per la televisione la parte di Lucia, nei
Promessi Sposi. Il suo successo fu trionfale, milioni di persone la domenica
sera erano lì ad attenderla. Lei era buona, servizievole, sempre bellissima,
alle prese con tutta la trama del romanzone: sorrisi, pianti e tutta la gamma
dei sentimenti che Dio, Manzoni o chi per lui aveva mandato in terra. Io non
ero molto contento. Per vederla la vedevo. Come avrei potuto perdermela, la sua
figura mi era entrata dentro, non potevo farne a meno, ma soffrivo. Sentivo,
percepivo che altri, molti altri, si stavano, si erano, innamorati di lei.
Troppi ormai la conoscevano e la apprezzavano e io non potevo sopportarlo.
La sera, le domeniche
dopo lo sceneggiato, a letto, mi venivano le lacrime agli occhi. La sua
interpretazione mi faceva soffrire. Lei non era più mia, non era più di pochi,
quei pochi in cui io avevo una parte o almeno avrei potuto avere una speranza.
Ormai era di milioni di persone, e io mi sentivo sempre più indistinto. Perdevo
spessore, mi vedevo passare davanti gente, uomini, bellistronzi che prima avrei
preso a calci e sberle. Ora invece tutti quei commenti su di lei non ce la facevo
neanche a sopportarli. Erano troppi, erano tanti. Mi veniva da dire ma perché
me li dite tutti a me i vostri fottuti commenti, le vostre opinioni su di lei?
Ma era praticamente impossibile non sentirli.
Per me lei era, più di
tutto, Giulia dei Pugni in tasca, tenera e feroce, meschina e in fondo
assassina. Perfetta amante, da brivido, qualcuno direbbe da sballo (non io).
Normale fuori e dentro, capace di tutto,
infantile e generosa che mi poteva amare come volevo io, come avrei voluto
essere amato. Sbandata perfetta, da salvare. Salvare da suo fratello, dagli
sguardi alle prostitute e ai loro movimenti, a come tenere la sigaretta in bocca e tra le
mani. Dal suo infantilismo, dal suo essere fuori. Era questo che mi attraeva,
se doveva essere la mia musa che almeno lo fosse in perfetta regola, che ci
fosse un nostro reciproco salvarci. Che mi togliesse da questa valle di
lacrime, da questa noia subdola, da un sacco di sensazioni inutili. Io salvavo
lei dalla perdizione, lei mi avrebbe evitato una grigia e monotona vita di
provincia. Almeno per un po’.
In questo tormento, la
persi di vista. La persi pian piano, senza mai dimenticarla del tutto.
Una sera, ma anni dopo,
al cinema ormai non la si vedeva più, andai a vedere Paola a teatro. Stavo con
una donna che in quel momento significava molto per me. Avvolto com’ero nel
profumo di lei che mi stava vicino, Paola sul palco mi sembrò lontana. Sempre
bellissima, forse in realtà anche più di prima, ma non più mia. Forse di chi?
non volevo neanche saperlo.
Non l’ho mai seguita a
teatro, avevo altro per la testa e poi, lei, sì ha fatto teatro, ma non
tantissimo. E il teatro è un circuito, si va in un posto per un giorno o due,
una settimana, hai un impegno, non lo sai e ti perdi lo spettacolo. Alla fine,
la verità, è che hai perso l’interesse. Gli amori finiscono.
Passano gli anni e un
giorno la rivedi in televisione. Ma come è possibile? È ancora bella e ti fa
sempre lo stesso effetto. È un miracolo, qualcosa di soprannaturale. Per caso,
in una scena di ospedale, guardi il suo seno nudo. È perfetto. Come avrà fatto?
Sarà stato l’amore o la maledizione dei suoi fans? Non lo sai. Sai, lo sai,
invece, che in fondo il tempo è passato, ma tu sei ancora là, a pensare a quei
giorni. Con Dario vivo e un brivido nella schiena.
(E un sei ancora e
sempre innamorato).
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