racconto
Pochissimi lo
sanno; i più, quasi tutti, lottano, s’affannano per farsi,
come dicono,
uno stato, per raggiungere una forma; raggiuntala,
credono di
aver conquistato la loro vita, e cominciano invece a morire.
Non lo sanno,
perché non si vedono; perché non riescono a staccarsi più
da quella
forma moribonda che hanno raggiunta; non si conoscono per morti e credono
d’esser vivi.
(L. Pirandello)
1.
Sasso fu eletto per la seconda volta con ancora più voti
della prima. La sua prima elezione l’aveva vissuta come un obbligo, un dovere,
comunque una limitazione, costringono me che sono un cavallo a fare la pipì
in un bicchierino, pensò, e se la
legò al dito. Aveva ambizioni più grandi. Voleva arrivare ai vertici nazionali,
fare il presidente di qualcosa, che sò, avere un incarico ministeriale, essere
considerato per quello che aveva saputo fare. Ma che aveva saputo fare? Beh, molto. Aveva saputo battere, qualche anno prima, alle elezioni una concorrente agguerrita, una di quelle donne toste oltre che bella. La città poteva, come aveva sempre fatto, essere ammaliata da quell’immagine senza sostanza, lo aveva già fatto troppe volte prima, lo avrebbe fatto di certo altre volte dopo. E invece no. La sua strategia, che poi non era una strategia, ma il suo modo abituale e naturale di fare politica, aveva conquistato questo popolo strano della città. Lo stesso popolo che lo aveva fatto vincere una seconda volta con ancora più voti, un trionfo, un’apoteosi. E ancora una terza e poi una quarta. Sasso dal canto suo aveva portato segnali di cambiamento lì dove per decenni c’era stato affare, squallore, collusione, diritti calpestati, miseria culturale, voglia e brama di potere e basta.
considerato per quello che aveva saputo fare. Ma che aveva saputo fare? Beh, molto. Aveva saputo battere, qualche anno prima, alle elezioni una concorrente agguerrita, una di quelle donne toste oltre che bella. La città poteva, come aveva sempre fatto, essere ammaliata da quell’immagine senza sostanza, lo aveva già fatto troppe volte prima, lo avrebbe fatto di certo altre volte dopo. E invece no. La sua strategia, che poi non era una strategia, ma il suo modo abituale e naturale di fare politica, aveva conquistato questo popolo strano della città. Lo stesso popolo che lo aveva fatto vincere una seconda volta con ancora più voti, un trionfo, un’apoteosi. E ancora una terza e poi una quarta. Sasso dal canto suo aveva portato segnali di cambiamento lì dove per decenni c’era stato affare, squallore, collusione, diritti calpestati, miseria culturale, voglia e brama di potere e basta.
Ma ancora prima egli era stato un dirigente tutto di un
pezzo, si era sempre distinto, era uno con il fiuto e la passione per la cosa
pubblica, per la politica nel senso più alto del termine. Ce l’aveva nel
sangue, per lui era un fatto naturale.
Sasso veniva dalla periferia dell’impero e aveva sbaragliato i cittadini, gli ‘stronziborghesi’, quelli nati per dirigere, fin da quando il primo capo del partito era venuto dall’est e li aveva radunati, lì, proprio in città, scelti come interlocutori privilegiati. Chissà cosa sarebbe successo se avesse detto, gli ‘stronziborghesi’ no, quelli della famiglie bene lasciamoli dove stanno, da ora si cambia, avanti quelli che hanno le capacità e basta. Ma allora non aveva avuto il coraggio di cambiare, aveva voluto dare un bel segnale di continuità. Si era detto, la cultura, quale cultura trovi nelle famiglie normali, quali libri hanno letto i figli degli impiegati? Gli ‘stronziborghesi’, però, la passione ce l’hanno uno su mille e per un tempo limitato, a comando e se sollecitata. Poi finisce, fallisce, rientra, si spegne.
Sasso veniva dalla periferia dell’impero e aveva sbaragliato i cittadini, gli ‘stronziborghesi’, quelli nati per dirigere, fin da quando il primo capo del partito era venuto dall’est e li aveva radunati, lì, proprio in città, scelti come interlocutori privilegiati. Chissà cosa sarebbe successo se avesse detto, gli ‘stronziborghesi’ no, quelli della famiglie bene lasciamoli dove stanno, da ora si cambia, avanti quelli che hanno le capacità e basta. Ma allora non aveva avuto il coraggio di cambiare, aveva voluto dare un bel segnale di continuità. Si era detto, la cultura, quale cultura trovi nelle famiglie normali, quali libri hanno letto i figli degli impiegati? Gli ‘stronziborghesi’, però, la passione ce l’hanno uno su mille e per un tempo limitato, a comando e se sollecitata. Poi finisce, fallisce, rientra, si spegne.
Sasso ce l’aveva fatta, l’aveva fatta in barba a tutti
quanti, era il nuovo “re” del territorio. Prima, però, aveva dovuto superare un
difetto di pronuncia, lo aveva fatto con la determinazione dei predestinati.
Con la forza e con la rabbia. L’aveva anche aiutato un po’ il fisico,
l’imponenza, la stazza, la statura. Hai voglia di dire che non conta. In
effetti conta, hai voglia se conta. Questo giovane era sempre arrabbiato per
non inciampare nelle parole, faceva tenerezza, diceva cose che pure altri
dicevano, ma lui le diceva (per forza) con rabbia. E venivano meglio. I capi,
alcuni capi, lo presero sotto la loro protezione e cominciò la scalata.
Quando, nelle assemblee, interveniva lo faceva con veemenza.
Si arrabbiava se qualcuno metteva in dubbio i principi della lotta sociale, si
faceva afferrare per pazzo se notava cedimenti negli altri. Sempre in prima
linea, a spiegare, dibattere, convincere, si capisce che è uno che ci
crede veramente, dicevano tutti, le donne comprese.
Aveva deciso di lanciarsi a livello nazionale e ce l’aveva
fatta. Era preso in considerazione, era uno che contava, e poi era un cultore
di letteratura ed arte, il che non guastava affatto. E un po’ faceva strano
sentirlo parlare di poesia ma alzando la voce e arrabbiandosi. Quando parlava
era come se si fosse infilato su un binario fatto di parole, un binario in
discesa, che se andavi piano si incagliava e se andavi forte scivolava ma con
la possibilità di finire fuori strada e di far apparire comica tutta la
situazione. Ma lì, dove viveva Sasso erano abituati a prendere per buono tutto
quello che derivava da un potere, dalle persone che parlavano in un qualsiasi microfono e neanche ridevano della comicità
naturale della cosa.
Oltre la comicità era stato lui ad aver voluto gli artisti
migliori del mondo nella città, a fare mostre, a inaugurare eventi che con la
città non avevano alcun legame. Erano eventi considerati strani e buoni per una
chiacchierata, qualche battuta, un po’ di polemica. Storica e bellissima quella
che seguì una istallazione di piccoli teschi in bronzo sul selciato di una
piazza. Chi li trovava belli, chi orribili, chi rideva, chi piangeva. (Hai
visto? Hanno messo i teschi in piazza? Scandaloso!) I ragazzi con i
teschietti delimitarono le porte per
giocare a calcio. Finita la festa, tutto come prima, anzi peggio. Non c’era
abitudine a quegli eventi. Lui voleva
iniziare un discorso, aprire una pista, inaugurare un cammino. Era il suo modo
di convincersi che stava facendo giusto, era quello che avrebbe sempre voluto
fare, era un suo godimento personale e ora che poteva, voleva farlo, se
necessario, l’avrebbe anche imposto. E perché no? Il deserto che c’era dietro
era impresentabile, non interessava a nessuno, tutti impegnati a rincorrere e a
rincorrersi tra di loro, incessantemente, senza soste, perdendo di vista la
meta, non avendo più nessuna meta se non quella di finire la giornata in
qualche modo, sapendo di essere in guerra soprattutto con i vicini di scranno,
sedia, scrivania. E con il sospetto di essere contro le guerre in generale perché una guerra ce l’hai in casa, nella
testa, tutti i giorni, tutti santi minuti, non per altro.
E così restò bloccata la gestione del territorio per mesi e mesi, lui risentito con i suoi che
lo avevano messo in quella situazione a fronteggiare e a collaborare con dei
rimasugli di potere locale che erano già passati per il setaccio del potere
nazionale. Su questo non ci poteva passare…
2.
“Io allo stesso modo, io alla stregua, io come quello lì che comanda da casa sua, dal paesino, che finito lo spazio per il potere da una
parte lo inizia da un’altra, senza soste, senza fine, senza vergogna. Ma io
nemmeno ci parlo con uno come quello, e chi è lui, il ras? E allora pure io
sono ras! C’è qualche problema? Chi se ne frega se questa sanità è l’ultima del
mondo, se siamo a livelli disumani, se nessuno controlla niente, se lo schifo
ci sopravanza di un metro sopra la testa. Chi se ne frega se abbiamo la
peggiore scuola del mondo, e l’assessore è proprietario della scuola privata
sul modello di quella americana? Se i timidi passi concreti sulla scuola sono
stati fatti da personaggi dell’altra campana. Noi non continuiamo le cose buone
fatte da altri perché non si fa. Mettiamo a capo una demente raccomandata
perché così va il mondo e perché anche io voglio farlo andare così. Se i vostri
figli hanno una scuola scadente e senza cervello, fatti vostri, non posso fare
tutto io.
Eppure mi passano davanti agli occhi dei ricordi, dei flash.
Una mattina di tanti anni fa in una cittadina della provincia era stato ucciso
per rappresaglia dalla camorra un medico serio, giovane e pulito. Ero lì, a parlare a quei ragazzi di poco più giovani
di me, e li sentivo vicini, a dargli coraggio, a infondere un poco di speranza.
Loro erano passati con le bandiere in mano per le strade di un paese con le
finestre e le porte sbarrate, in un silenzio di tomba che faceva paura e
infatti la paura gliela si leggeva in faccia. Si meritavano la mia stima. E io
sinceramente gliela davo. Poi, però dovevo pensare anche al mio futuro di
politico. E qui se non ti stai attento sono pronti a farti fuori, sono lesti
gli altri e ti conviene essere più lesto di loro.
La morale è questa, se ti danno una coltellata alle spalle,
specialmente i tuoi compagni, gliela devi restituire, altrimenti non sei fatto
per la politica, è meglio che te ne stai a casa a fare la calzetta, anche se
sei un uomo. Ma sei un uomo, se non dai coltellate in politica?
Ora che sto qua, non mi devo far scappare l’occasione di far
vedere chi sono. Basta con moglie e figli, che se non vogliono capire se ne
possono anche andare a fare in c…, io devo essere lucido, a mezzogiorno una
mela e un bicchiere d’acqua, devo essere sempre pronto, non devo farmi trovare
impreparato, perché questo vogliono,
tutti, cogliermi in castagna e fottermi. Ma io farò vedere a tutti chi è Sasso.
Il mio problema attuale è che non riesco a smettere di fumare, è più forte di
me. Sono troppo intossicato. Ho sempre fumato, non mi vedo senza sigarette.
Ma neanche posso fare tutto io. Anche gli altri devono
collaborare. E se mi vogliono, qui, confinato in questo posto senza speranze, se non hanno capito che ho
già dato, allora io smetto di impegnarmi, faccio come loro che fanno e disfano
e non hanno mai saputo dimostrare niente, solo comandare. Ebbene i metodi li
so, li sanno tutti, farò come loro, con la coscienza sto a posto, io oltre a
comandare come fanno tutti, ho già dimostrato che so anche fare altro, loro no,
sono superiore e mi devono il rispetto che mi devono. E invece? Non è
possibile! Ma come? Mi invitano al congresso e poi non mi danno la parola? Mi
devo mettere in fila? Devo aspettare come un qualsiasi delegato, io che ho dato
a loro la possibilità di stare dietro quelle cazzo di scrivanie a grattarsi le
palle e far finta di decidere, ma che decidono? Lo so cosa decidono, non
decidono niente che non sia dove e come piazzare i loro uomini. E che ci vuole?
Mi vedranno se lo so fare pure io… Intanto, devo vestirmi dal miglior sarto
della città. Basta con i vestiti confezionati, gli stronzetti si svecchiano e
si vestono bene e io che c’ho anche il fisico, me lo posso permettere, non lo
faccio?
Dunque vestiti di cachemire, essenze importanti, attenzione
a tutti i dettagli, nessuna sbavatura, e soprattutto non devo fare errori.
Glielo faccio vedere chi sono io! Li aggiusto io per le feste. E poi, ho
deciso, da questo momento non fumerò più. La volontà. La mia volontà per prima
cosa. Ho fatto tanto, farò anche questa. Non fumerò e mangerò solo pesce. Me lo
posso permettere. Lo farò. Lo devo fare.
E da oggi, il primo che sbaglia, che non mi approva, che mi
critica e vuol fare di testa sua, troverà la strada sbarrata, senza mezzi
termini, devo dimostrare di che cosa sono capace. Mi devono essere tutti
fedeli, solo così potrò rispondere a quelli che mi vogliono male, che spargono
le dicerie e le porcherie su me e su quello che faccio. Che dicono che faccio
il dittatore? Sì, faccio il dittatore, embè? Conoscete un altro metodo per
gestire e controllare, che non sia qualche stronzata psicologica e le puttanate
sul lavoro di gruppo? Il potere lo so io che cos’è, io che l’ho attraversato
tutto”.
(Agostino è un giornalista, arriva in città. Scende dal treno alla stazione centrale
e attraversa una piazza che più caotica non si può. È un pomeriggio di sabato e
Agostino pensa di essere finito in una di quelle foto di città indiane (senza
offesa), dove non esiste divisione tra marciapiede e strada, tutto invaso
allegramente da macchine e pedoni. Auto ferme in mezzo alla gente che
passeggia, motorini che sfrecciano, semafori che continuano a cambiare colore
senza che nessuno li guardi. Sensazione un po’ strana. Piove. Sul corso, una fila interminabile di auto con due ruote
sul marciapiedi e due sulla strada, che ostruiscono il passaggio, poliziotti
che camminano distratti in tutta questa varietà che potrebbe sembrare colorata
ma non lo è per il maltempo. Agostino non sa che pensare. Il primo impulso è
quello di tornarsene alla stazione, ma rimane lì, vorrebbe capire. È difficile.
La pioggia gli bagna i capelli, lui lentamente tira fuori un ombrello, lo apre
sulla sua testa sperando chissà come e perché di salvarsi, di essere
semplicemente portato via da questo pomeriggio di metà autunno).
“Forse che un giorno
gioverà ricordare anche queste cose?”
Boh!
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