recensione di Francesco Di Lorenzo
Il libro racconta una
storia d’amore che è durata tutta una vita, un amore lungo quindi, come del
resto il titolo fa intendere. Si parla di una coppia di intellettuali che
sono stati impegnati nell’editoria. Lui ha pure scritto qualche libro, ma non
avendo avuto il successo che forse sperava, se ne è disinteressato.
Forse, si ipotizza nel racconto, il non essere eccessivamente coinvolto
non era altro che la manifestazione evidente della sua vera natura, «era
vissuto mantenendosi a una certa distanza dalla propria vita. Non a grande
distanza – a una certa distanza però sì: distanza dalle azioni, persino dai
pensieri e dalle cose che scriveva; e naturalmente, ancora di più, distanza
dagli altri, dalla società».
Sulla scrittura la moglie
ricorda che lui aveva le sue idee:
«Diceva: non capisci quanto
sia ridicolo pensare di aver scritto un capolavoro?
Eppure molti ne sono
convinti, li conosci anche tu.
Certo che li conosco, sono
insopportabili».
La loro vita è scivolata
via insieme tra le speranze di poter cambiare in meglio la casa (di lei), e la
speciale indifferenza a tutto ciò che lo circonda (di lui). Poi lui muore e
qualcosa viene meno: bellissima la riflessione che, sia un amore corto che un
amore lungo, in fondo finiscono allo stesso modo, con la partenza o la
scomparsa di uno dei componenti. Ma la morte non cancella la sua
presenza: lei, che racconta, sente la presenza del marito ancora e sempre
nella casa ormai vuota e triste. La casa, quella casa, che era stata,
nella loro vita, una costante imprescindibile: da giovani l’avevano prima
presa in affitto, e poi, passato qualche anno, l’avevano comprata. Non si erano
più mossi da quel quartiere quasi periferico ma che preferivano, e nella
loro lunga vecchiaia insieme era stata il loro conforto, «in questa casa le
nostre due vite si sono annodate… ma cosa resta di un nodo quando si disfa?».
Restano i ricordi, i tanti ricordi legati ad una vita vissuta insieme, ai
periodi di alti e bassi sempre accettati con equilibrio, resta la
tenerezza di lui e la sua costanza nell’amore, restano nell’aria i suoi ‘ti
amo’, sempre presenti, anche e soprattutto nella vecchiaia.
Mariotti è uno scrittore
anomalo, giornalista di successo, o almeno nel periodo in cui lavorava
all’Espresso conosciuto e visibile, è stato poi collaboratore sia di
Repubblica che del Corriere della sera, oltre che curatore e responsabile
editoriale. I suoi libri, un po’ preziosi-un po’ rari, hanno sempre rasentato
la sperimentazione, senza mai esagerare. La lingua scoppiettante ed ironica dei
suoi articoli, però, nei romanzi (o racconti che dir si voglia), si è sempre
stemperata, alla ricerca forse di un equilibrio che, in questo libro, è
riuscito in pieno. L’amore lungo è un libro delicato, scritto con un linguaggio
disteso e piano, senza troppe ironie, anche se non mancano le zampate, quando,
parlando della sua vita ormai andata e domandandosi se sia stato felice o
infelice, interviene nel racconto dicendo: «A questo stato di moderata
infelicità non mi sembra il caso di rinunciare per la sola ragione che sono
morto». Questo solo per dare l’idea della compostezza e contemporaneamente
della complessità di un linguaggio solo apparentemente semplice: alla fine
sembra quasi che l’autore sia giunto alla conclusione che il vero
sperimentare sia il non sperimentare. O meglio, non sperimentare a livello
linguistico, ma piuttosto farlo sul livello strutturale. E su questo ‘L’amore
lungo’ ha filo da snodare.
Un’ultima annotazione sull’accettazione
della vecchiaia, che è una caratteristica del personaggio. Il pensiero va ai
tanti vecchi del panorama italiano che continuano, alla loro età o forse
per la loro età, ad auto-osannarsi e ad auto-incensarsi, non pensando mai di
sfiorare il ridicolo. A ciò si contrappone la compostezza e quindi la
grandezza di Mariotti che scrive e sperimenta dal suo angolino di mondo. Zitto
e muto, eppure tradotto in molti Paesi.
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