La cravatta di Fini

Sono sempre stato di sinistra. Mi sono sempre considerato naturalmente di sinistra e a diciotto  anni  mi sono iscritto al partito comunista. Non ricordo di aver mai avuto dubbi sulla mia collocazione politica; in famiglia non avevo esempi,  mio padre era di idee indefinite, più o meno democristiane. In pratica non capiva nulla di politica, si limitava a votare la democrazia cristiana perché glielo chiedevano. O forse,  conoscendo il suo orientamento glielo chiedevano solo i democristiani. Oltre ad un lontano parente che si sapeva fosse socialista, niente, il deserto completo dal punto di vista delle discussioni, dell’orientamento politico e dell’impegno.  Eppure sentivo-presagivo-intuivo, già alle elementari, che il senso di giustizia stava-abitava a sinistra (il senso di giustizia, più o meno lo individuavo in   quello strano miscuglio che parte dalla rabbia e  prosegue per strade impervie   arrivando alla ragione). Mi sentivo vicino a coloro che affermano ad alta voce di stare con gli ultimi, con i poveri, con quelli che non ce la fanno.  Forse era solo bontà, chissà? L’ammonimento di mia madre, cattolicissima, di fare sempre del bene,  l’avevo deviato in politica, l’avevo inteso in questo modo e così, alla fine, per me,  fare del bene significava essere di sinistra, non avevo dubbi.Certo è che le prime nozioni, le prime conoscenze, la storia dell’uomo anche solo scolastica che venivo scoprendo man mano, mi confermavano quello che pensavo, ch’ero nel giusto. Non avevo dubbi.

Col tempo, poi, all’interno della grande famiglia della sinistra,  mi sono DILANIATO tra l’essere duro e puro,  aderendo ad un principio che non si discute, all’ideale che non si contamina e il senso di responsabilità che ti fa in qualche modo sporcare il tuo stesso ideale. Insomma, avrei voluto che la mia idea – il mio ideale –  non fosse contaminato da niente e da nessuno, ma contemporaneamente volevo che il ‘compromesso storico’ andasse avanti,  perché così la società sarebbe avanzata, perché così i deboli e gli indifesi avrebbero avuto la loro chance per progredire. Ero sempre combattuto, parteggiavo per l’una o l’altra delle posizioni a seconda del momento e anche dell’umore. Nelle discussioni mi bloccavo proprio su questo: è vero, pensavo,  che bisogna essere responsabili, ma non possiamo svendere tutto quello che altri hanno conquistato con la fatica e con le lotte solo perché  bisogna  andare al governo. Per me, diventare troppo ragionevoli significava non essere più di sinistra, significava voler governare e basta, a costo di passare sopra principi e idee, calpestando ideali, uomini e sentimenti. Queste contraddizioni mi stremavano, alla fine  delle discussioni mi prendeva lo sconforto. Mi veniva il dubbio, – e se avessero ragione loro? Cioè, la parte che secondo il mio umore in quel momento consideravo contraria? Credo che uno dei motivi per cui io non abbia fatto politica seriamente, fosse questo mio contrastante sentimento. Finite le discussioni io non ero mai contento, mi chiedevo, chiedevo a me stesso –  ma chi me lo ha fatto fare?  Perché mi sono imbarcato in una polemica così? E poi,  non ero neanche convinto al cento per cento di quello che dicevo, delle posizioni che difendevo, delle argomentazioni che trovavo. Nella testa avevo solo domande… domande senza risposte…risposte che neanche volevo. Il dubbio agitato come vessillo dell’intellettuale di sinistra. Che, però, contraddicendomi in pieno (forse no),  io identificavo in Berlinguer. Per me era lui il pensatore tormentato, per me era il solo politico  che non cercava l’applauso, era quello che ragionava. (Comunque, in ogni caso, Berlinguer era il mio intellettuale di riferimento. Avevo con lui un rapporto speciale, mentale (come del resto qualche milione di italiani),   senza averlo mai conosciuto, senza avergli mai parlato. Però, mi illudevo di essere stato l’unico  a vedere nei suoi  occhi la stanchezza, ad aver avuto il privilegio di comprendere il suo affaticamento. Era successo qualche giorno prima che morisse. Eravamo a fine maggio, alla chiusura di un festival provinciale  dell’Unità, a Napoli. Avevo lasciato gli altri in fondo ed ero arrivato  fin sotto il palco. Berlinguer stava lì, a pochi metri da me,   parlava di rifondare la politica, di questione morale e di un  partito che sta fieramente all’opposizione. Lo avevo guardato  mentre leggeva  e lo avevo fissato  mentre concludeva  il ragionamento alzando gli occhi dal foglio per guardare  la folla al di sopra degli occhiali. Era  pallidissimo, faceva già caldo, ma lui non sudava neanche un poco, e  il suo pallore era impressionante. E poi aveva la palpebre stanche,  quasi chiuse. E così,  in agosto (Berlinguer  morì  all’inizio di giugno),  sono andato da solo, in pellegrinaggio,  a Padova. Mi sono fermato a ‘Piazza delle Erbe’, dove aveva fatto l’ultimo comizio e dove si era sentito male. Mi sono seduto su una panchina di marmo al lato della piazza. Sentivo solamente di essere agitato, come sempre  negli ultimi tempi. Era tardo pomeriggio e c’erano poche persone. Ho fumato in silenzio tre o quattro sigarette, una dietro l’altra. Una specie di omaggio da fumatore,  al fumatore Berlinguer. All’improvviso,  mentre buttavo via il fumo,  gli occhi mi si sono riempiti di lacrime. Ho iniziato a piangere senza riuscire a smettere. Un po’ cercavo di nascondermi dietro le mani che alzavo a livello della faccia,  anche se nessuno mi guardava. Ma le lacrime uscivano e  non riuscivo a frenarle.  Sono stato lì a piangere per un po’, a sentire il volto bagnato e le lacrime calde che mi scendevano copiose,  poi, quando me la sono sentita,  mi sono alzato e pian piano, camminando,  ho smesso. Gli occhi si sono asciugati e mi sono sentito un poco meglio. Da allora però, dal periodo della morte di Berlinguer, i dubbi si sono moltiplicati.

Sono passati gli anni e una notte ho sognato Bertinotti. L’avevo votato e lui   aveva fatto cadere il governo Prodi. Non ci potevo credere. Un governo che sembrava stesse cambiando le cose, e che ti fa Bertinotti? Fa il duro e puro, se ne frega delle conseguenze, fa cadere il governo. Alcuni dicono che quel suo gesto abbia bloccato per sempre un possibile rinnovamento. Non so se sia vero o meno, certo è che vederlo,  otto anni dopo,  seduto sulla poltrona di presidente della Camera, terza carica dello Stato, nel secondo governo Prodi, faceva un certo effetto. Di tristezza.
Ma negli anni c’erano stati  alcuni episodi che mi avevano fatto dubitare di me, sul mio essere veramente di sinistra. La prima volta capitò quando  vidi  Fini con un paio di occhiali nuovi. Faccio un po’ caso, fisso meglio la televisione, e mi accorgo che la sua montatura è uguale alla mia. Ci resto un poco male, abbiamo gli stessi gusti? Possibile? Mi dico che in televisione non si riesce a vedere bene, e che sicuramente non sono gli stessi.  Nei giorni seguenti cerco una sua foto sul giornale, e questa volta devo ammetterlo, sono i miei stessi identici occhiali. La montatura di metallo satinato marrone, e l’angolo in alto tagliato. Il mio primo impulso è cambiarli, poi penso che sia una stupidità. Qualche amico se ne accorge e me lo fa notare, dico che sembrano uguali ma non lo sono. Passa qualche tempo e una sera vedo sempre Fini ad un dibattito. Ha una cravatta che mi attira. È uguale ad una che mi ero appena comprato: quando la telecamera lo inquadra da vicino,  non ho dubbi: colore rosso scuro e rombi gialli  irregolari, non c’è scampo. Ho gli stessi gusti di Fini, vado in crisi. Ma non è finita qui. In fondo, passi pure per Fini che ormai sembra uscito di scena, ma il mio stupore è grande quanto la mia crisi di identità,  nel momento in cui  faccio caso ad un’altra  cravatta uguale ad una delle mie (e che mi piace). La indossa Alfano.


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