Recensione in 500 parole di Francesco Di Lorenzo
“Caro Calvino il libro è questo, se
lo vogliamo pubblicare lo pubblichiamo, se no, grazie lo stesso, non fa niente,
ci salutiamo e basta”.
Un discorso del
genere non lo fa Jep Gambardella, il personaggio del film di Sorrentino, ma
Nicola Pugliese, autore di “Malacqua”, libro che uscì nel 1977 per l’Einaudi.
Nicola Pugliese, di professione giornalista, in vita non ha mai più voluto
ripubblicare il suo romanzo. Strano e singolare destino, il suo; autore di un
unico romanzo apprezzato da tutti, non ha mai inseguito il successo o la
notorietà. Lui, che avrebbe potuto, si è soffermato invece sull’inutilità
di certe cose e di certi eventi, e su di essi ci ha costruito una vita, non ci
ha solamente giocato.
Appena andato in
pensione lasciò la sua abitazione di via Petrarca a Napoli, da dove
si gode il panorama più bello del mondo, per andare a vivere (lì è poi morto
nel 2012) ad Avella, ‘due piazze e otto bar’, all’uscita di Baiano,
sull’autostrada che porta ad Avellino (con tutto il rispetto). Questo per
stare vicino a sua figlia, unica come il suo romanzo, che da quelle parti,
diventata donna, si era stabilita. Si può ben dire, allora, che Jep
Gambardella è un epigono di Nicola Pugliese, come lo è anche del suo
alter ego che nel romanzo si chiama Andreoli Carlo. (Bella l’idea di chiamare i
personaggi del libro con cognome e nome, come una volta si faceva a scuola).
“Malacqua” è un romanzo solido, compatto, intrigante e
sostanzioso. Scritto in una lingua efficace e appassionata, a tratti
sperimentale senza esagerazioni, anzi, assolutamente moderna. Una
lingua vivace e complessa quanto basta. Il libro parla di
quattro giorni di pioggia nella città di Napoli. Di una pioggia che
sembra non debba finire mai e che porta con sé le conseguenze di crepe e
crolli, smottamenti e morti; ma la storia è anche riempita di eventi strani, di
marca fantastica e misteriosa: bambole parlanti con vestitini a fiori, e monete
che suonano ma la musica la sentono solo le bambine. Tutto il
romanzo, poi, è attraversato da un excursus nei pensieri della gente
comune. Pensieri che raccontano vite lontane, perdute, inimitabili,
uniche: la trasposizione cinematografica di questo flusso di pensieri l’avremmo
vista, appena qualche anno dopo, in un film di Wim Wenders.
Ma torniamo al
libro e facciamo un solo esempio: il quarto giorno di pioggia (il libro è
diviso in quattro capitoli che corrispondono ai quattro giorni di pioggia), è
il racconto del risveglio e del rito della barba del giornalista Andreoli
Carlo. Mentre il racconto scorre, spiegando tutte le fasi della rasatura, per
quaranta pagine, i pensieri del protagonista si fondono e si confondono con
quelli di persone che si interrogano sul senso della vita, della loro vita: c’è
l’impiegata delle poste in crisi coniugale, c’è l’indecisa
segretaria-amante dell’avvocato che sogna di cambiare vita, e c’è il
fruttivendolo che non ce la fa più e che vorrebbe tornare a vivere nel
tranquillo paese da dove è partito. Ma al centro c’è sempre questa
pioggia incessante che non smette, monotona e persistente, che innesca la
sensazione che qualcosa dovrà accadere (ma che non
accadrà), un’attesa infinita e inutile.
Si tratta di un
libro fuori dal comune, fuori dalle mode, fuori dai canoni, come solo
forse gli anni settanta avrebbero potuto concepire. Ma non è affatto un libro
superato, anzi. La sua potenza dopo quasi quarant’anni è intatta: riesce
a catturare e ad essere dirompente quanto basta.
Italo Calvino
disse allora che la lettura degli episodi di “Malacqua” lo avevano trasportato,
messo di fronte all’essenza stessa del racconto, del raccontare.
E, leggendolo, sembra
proprio che così sia.
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