Enzo Spaltro

IL PERDONO ED IL FUTURO

Una caratteristica base di ogni negoziazione è la creatività, la capacità quindi di inventare e scoprire. Inventare soluzioni mai prima esistite e scoprire soluzioni già inventate o sperimentate da altri.  A ciò si aggiunge il fatto che ogni negoziazione tratta un conflitto e quindi una situazione in cui danni ed offese sono frequenti e richiedono l’uso di una qualche idea di giustizia. Le modalità di reagire ai danni ed alle offese richiedono poi una grande creatività per evitare la distruzione reciproca delle parti in conflitto. La guerra atomica ne è un esempio. Ogni l’uso della negoziazione si è fortemente diffuso tanto da poter affermare che viviamo in una cultura negoziale. Cercherò di mostrare qui come sinora la creatività non sia stata molto usata nel campo della negoziazione, che al massimo è arrivata alla contrattazione oggettiva od alla mediazione della giustizia ripartitiva o riparativa, tralasciando il vasto campo della giustizia soggettiva e della creatività che la contraddistingue. Così sono state esplorate le vie della vendetta, della lotta, del potere e della fuga, ma non son0 state esplorate invece  le vie della dimenticanza, della casualità e del perdono. Di quest’ultima modalità negoziale parlerò in questa esposizione.

Spesso  gli uomini hanno considerato i fatti come frutto di una  volontà superiore, di un “destino”. Per millenni il destino è stato immodificabile. Poi gli uomini hanno cominciato a trattare col destino. La negoziazione col destino l’hanno chiamata progetto. Progettare ha significato quindi una negoziazione col destino. Il progetto è la lotta del mutante, del cambiamento col destino, con quello che è fisso. I greci lo sapevano bene. E mettevano l’ananche-destino sopra la divinità. Il destino, il sovrumano, vinceva sempre. Achille e Prometeo ne erano un esempio. Ma  gli uomini continuavano la lotta. Scoprivano mondi sconosciuti dentro e fuori di loro. Inventavano religioni e  poteri. Si riappropriavano del  loro futuro. Esiodo inventava le Muse e la prima la chiamava Clio, per la storia e per la religione. Gli uomini scoprivano il legane tra dominio e destino. Ed il destino perdeva quella sua caratteristica onnipotente e totalizzante. Vedremo meglio come e perché.

Il futuro però dipende ancor oggi da un negoziato col destino e da qui deriva  l’importanza di una cultura negoziale. Che equivale a dire che si può cambiare il proprio destino. E che oggi il progetto riesce spesso ad equilibrare il destino. La cultura negoziale riesce a controllarlo. Negoziare col destino significa infatti diffondere una cultura negoziale. Non possiamo infatti dimenticare che la pluralità degli esseri umani acquista valore e risultato proprio se utilizza il negoziato, invece che la vittoria. La storia dimostra che proprio perchè si continua a vincere, si continua a perdere. Non si può vincere la natura, ma solo negoziare con lei. Non si può vincere il destino, ma solo negoziarlo. Inoltre non serve vincere, perché eliminare gli altri porta a ridurre il benessere globale. Non possiamo dimenticare che si vive meglio andando d’accordo che vincendo. Non possiamo dimenticare che il negoziato produce creatività ed inventa ricchezza. Non possiamo dimenticare che una delle basi dell’azione sindacale consiste proprio nella negoziazione. Negoziare significa essere in attività. Viene dal latino: negazione dell’ozio. Viene dal rifiuto del lasciare al caso la felicità della nostra vita. Viene dalla nostra continua trattativa col destino. E qui arriva la domanda: cosa vuol dire negoziare col proprio destino?

Innanzi tutto significa esplorare una connessione diversa. Perchè quella della volontà umana e dl libero arbitrio non basta più. La parità ha intaccato il dominio ed anche il destino. Si comincia a capire che il progetto non rende più necessarie le guerre. Oggi viaggiamo tra i tre concetti di destino, dominio e caso. Il destino, come ogni invenzione umana è prodotto dal dominio. Inoltre è il tentativo di pochissimi di opporsi al caso nella vita umana. Così nasce il dominio, come uscita dal caso. In questo tentativo di uscita dal caso il dominio tenta di diventare destino, divinità immodificabile. Il faraone egiziano Amenofi IV° si auto-proclamò unico dio. Nacque il monoteismo. Il destino-dominio aveva sottomesso il caso. Il progetto aveva sottomesso il destino. Ma non durò a lungo. Altri tentarono di utilizzare questo merito. La ricerca della vittoria diventò predominante per gli uomini degli ultimi millenni. Il benessere fu sacrificato alla vittoria. La tentazione di vincere è ancora predominante specie nelle tre religioni monoteistiche. Negli Stati Uniti la teoria del ”destino manifesto” del presidente Grant (1869) mostrò chiaramente il rapporto tra destino e dominio. Era il destino che voleva unificare il continente nord americano, sotto gli Stati Uniti.

Adesso gli uomini ragionano con più calma e controllano le loro tentazioni di vittoria. Oggi ci stiamo accorgendo che per negoziare col nostro destino e gestire il caos abbiamo bisogno di rinunciare a vincere. A scuola si insegna il contrario e la cultura vigente è ancora quella dei guerrieri. Ma sta arrivando la cultura soggettiva delle connessioni: l’informatica, i viaggi, le telecomunicazioni ne sono un esempio. Così uno dei temi classici dell’azione sindacale è rappresentato dal negoziato. Una volta il sindacato era per la lotta e per la vittoria. Oggi è per il negoziato. Perché il negoziato trasforma le condizioni di un conflitto e diventa così strumento di cambiamento, di potere a somma variabile e di  benessere.  La natura del negoziato, (la negazione dell’ozio!), disdice la passività umana di fronte alla lotta e cambia la lotta contro… in lotta per… Il negoziato cambia soprattutto il dominio in parità. Ogni negoziato consiste  infatti in una grande produzione di parità, in una dissacrazione del potere ed  in una sua umanizzazione paritaria. Il dominio oggettivo ed unitario non produce tanta ricchezza, quanta ne produce la parità. Ed è la  parità che sta rendendo impossibili le guerre. Questa è una radice del negoziato: la constatazione che con tanti pari si vive tutti meglio che con un solo dominante. Questo convince il destino a negoziare con noi. Ed il nostro negoziare interno e soggettivo rende meno coercitivo il nostro contrattare  esterno ed oggettivo.

Continuiamo a ragionare: accettare passivamente il proprio destino rappresenta una condizione dubbia di benessere. Significa essere alla mercè. La comunicazione è stimolata dal negoziato, perché la parità permette di esprimersi più del dominio-destino. Negoziare col destino significa imparare a trattare col dominio vigente qui ed ora. Affermare la propria esistenza e la propria appartenenza propone la priorità del soggetto nella cultura negoziale. Si negozia fuori solo se prima si negozia dentro di sé.  Si aggiunga il fatto che la comunicazione è stimolata dal negoziato, perchè la parità diminuisce le distorsioni e favorisce le reciprocità. Il vantaggio della comunicazione negoziale sta nel fatto che l’interesse reciproco viene ad essere posto alla base della comunicazione stessa. Infine la negoziazione è preferita dal più debole nei confronti del più forte. Chiedono di negoziare tutti i deboli. Anche le costituzioni contro l’assolutismo del sovrano, sono sempre richieste dagli oppressi nei confronti degli oppressori. Il negoziato diventa quindi come una specie di lotta di liberazione dei dominati nei confronti dei dominanti. Lo si vede bene nelle comunicazioni i massa, dove i dominanti possono esprimersi quanto e come vogliono ed i dominati no.

Un famoso negoziato,  che ha consentito di dare il via a tutte le costituzioni europee, è rappresentato proprio dalla Magna Charta inglese del 1225. Conviene ricordare questo evento, perché è simbolico di quello che stiamo discutendo sulla negoziazione col destino. In Inghilterra l’erede al trono era allora Riccardo, detto cuor di leone. Era sempre in guerra nelle crociate che andavano a combattere contro gli infedeli.  Lo chiamavano cuor di leone per la sua indole battagliera. Chi conduceva il regno era però il fratello minore Giovanni, che fu chiamato Giovanni senza terra perché conduceva il regno senza essere re. Aveva poco potere militare perché i guerrieri erano tutti “al fronte”, cioè a combattere i musulmani. Perciò fu costretto a negoziare coi nobili e coi vescovi sulla gestione dello stato. E dovette dare garanzie e condivisione di poteri, come si nota nella Magna Charta del 1225.

Possiamo dire che abbiamo da allora traversato tre epoche della negoziazione: quella che possiamo chiamare l’epoca pionieristica, quella in cui si cominciò a considerare la trattativa, non come debolezza, ma  come valore, quella strumentale, dell’idea del negoziato possibile col destino e l’epoca decisionale, o della firma degli accordi e del loro trattamento. Come succede in ogni negoziato, il momento più difficile è quello che segue gli accordi firmati, rispettati o no. Già nella prima fase pretendere di trattare era un sacrilegio. Poi nella seconda fase, l’idea di trattare col proprio destino era considerata colpevolizzante.  Nella terza fase il livello collettivo imposto dalla siglatura degli accordi rappresentava una condizione di rivolta contro il proprio destino  e quindi contro il dominio. Una quarta fase della negoziazione si sta affacciando alli’orizzonte, quella che possiamo chiamare del perdono, cioè dell’asimmetria del negoziato in vista di un maggior benessere. Possiamo chiamare questa fase in arrivo e non ancora definibile, fase estetica. I sintomi ci sono, ma gli sviluppi di questa fase sono ancora misteriosi. Il negoziato interno e soggettivo col proprio destino lo possiamo chiamare perdono. Successivamente compare la possibilità di liberarsi da questo destino ed anche una crescente parità rispetto al dominio vigente.

La prima fase ha dovuto decriminalizzare il negoziato e distinguersi dalla rivolta. I primi periodi in cui si chiedeva di poter trattare si era subito sottoposti all’espulsione, se non all’eliminazione. Il sindacato era proibito. Il codice penale italiano prevedeva il reato di adunanza sediziosa. La pretesa di obbiettare al potere assoluto (dominio = destino) era considerato un crimine. Si è passata  così cruentamente la fase pionieristica della negoziazione, che è durata sino agli anni cinquanta in tutta Europa. I deboli cercavano di vincere. Non speravano di cambiare il dominio. Prevaleva la mediazione cioè la trattativa tra un numero dispari di protagonisti. Questa negoziazione era l’equivalente del giudizio di un tribunale: un terzo che mediava tra due parti. Il potere a somma zero prevaleva ed il braccio di ferro del tipo “mors tua vita mea” era la logica  vigente. Il famoso homo homini lupus.  Al massimo si vedeva la negoziazione come uso dei tre poteri di Montesquieu: legislativo, esecutivo e giudiziario. Si trattava con un mediatore, un arbitro, un terzo: mai direttamente tra le parti,  senza la presenza del dominio.

La seconda la si può chiamare epoca strumentale e servì per diminuire le possibilità di una guerra combattuta. Si cominciò a rifiutare la guerra in cui il vincitore ed il vinto combattevano sempre, morivano presto e non si godevano mai la vita. Si vide così che trattando, negoziando, opponendosi al destino, si facevano gli interessi delle diverse parti. L’Europa della seconda metà del novecento è stato un esempio di questa seconda fase. Si è arrivati, con la mentalità impaurita dalla guerra atomica, a ritenere impossibili le guerre, perché anche in caso di vittoria il danno diventava superiore al vantaggio. Ed il pericolo di estinguere la razza umana si profilava all’orizzonte.  La vittoria non pagava più. Anche oggi è chiaro che la vittoria, soprattutto nel mondo del lavoro, non paga più. Meglio trattare e minimizzare gli aspetti distruttivi del conflitto. Il negoziare fu concepito come male minore. Il potere diventò a somma variabile ed il valore fondante  a poco a poco si trasformò dalla scarsità all’abbondanza.

La terza epoca è quella che possiamo definire decisionale, o degli accordi da firmare e rispettare. Dal conflitto si passò alle contraddizioni e da queste alle decisioni. Negoziare aiutò questi passaggi, costruendo sviluppo e benessere nel processo di creazione della ricchezza. La parità si qffacciava all’orizzonte: prima le done, poi i migranti, poi i giovani, gli anziani ed i disabili. Tutti speravano parità. Si vide, in questo momento storico. come negoziare non fosse più solo una dolorosa necessità per non distruggersi reciprocamente, ma una piacevole opportunità per inventare comune benessere presente e per progettare reciproco bellessere futuro. Negoziare è diventato uno strumento chiave della cultura della soggettività. Tanto da potere affermare che  non c’è futuro senza gruppo e non c’è gruppo senza futuro. E poi che non vi è soggetto senza gruppo né gruppo senza soggetto. E poi ancora che non vi è gruppo senza bellezza e bellezza senza gruppo. Ed infine che possiamo definire il soggetto come un progettista di un benessere presente o di un bellessere futuro.

Qui si pone la domanda: cosa vuol dire firmare un  accordo col proprio destino e mantenerlo nel tempo? Per rispondere dobbiamo introdurre due concetti che sono caratteristici della quarta epoca della  negoziazione oggi emergente jn parallelo con l’emergere della cultura della soggettività: la cittadinanza ed il perdono. Vediamo di trovare qui un bandolo della matassa. La cittadinanza è una combinazione tra la proprietà e l’appartenenza: una negoziazione tra il soggetto che alla nascita non conta nulla ed il suo destino-dominio che conta tutto. La cittadinanza è una relazione doppia e conflittuale tra lo zero del soggetto appena nato ed il tutto del destino (o dominio). La sudditanza è il nulla della nascita che permane nel tempo.  La cittadinanza, cioè la fine della sudditanza, è il risultato del negoziato, lotta, mediazione, eccetera, col proprio destino, dominio. La cittadinanza è il frutto della partecipazione, della lotta per l’appartenenza.  Questa condizione doppia è frutto della cultura di coppia, della reciprocità.

Ma la cittadinanza propone un terzo fattore nella negoziazione col destino-dominio: il fattore parità, altrimenti definibile come terzo fattore consenso. Quindi la cittadinanza non dipende solo dal lavoro, cioè dal contributo alla creazione di benessere, ma anche dall’appartenenza, dalla proprietà e dal consenso. Ciò vuol dire che si  può essere cittadini anche senza lavorare. Molte sono infatti le vie per  produrre benessere soggettivo e diffuso. E molti quindi sono i fattori che lo compongono. Perché la produzione di benessere avviene  tramite un’attività, un investimento di energia che produce benessere.  Oggi il lavoro è  il maggior produttore di ricchezza e di benessere soggettivo e diffuso. Ed il diritto di cittadinanza dipende dal lavoro.

Ma non sarà così ancora per molto tempo.  In molti luoghi infatti la cittadinanza non dipende più dal lavoro, ma dal fatto di essere nati in un  determinato posto. La cittadinanza dipende dalla proprietà della terra e dai  prodotti  che questa produce. La cittadinanza dipende dal reddito minimo garantito. Qui siamo al confine con l’utopia. Ma oggi sappiamola velocità con cui le utopie vengono trasformate in realtà. La cittadinanza dipende dal benessere soggettivo e diffuso che riesce a garantire ai soggetti cittadini. Non sappiamo come questa condizione si trasformerà e come si chiamerà. Sappiamo però che, se sarà negoziato, progettato e realizzato seguendo il consenso di crescenti masse di protagonisti, sarà certo migliore di quello che oggi chiamiamo (e non da molto tempo) lavoro. Da qui si parte, anche se qui non si arriva. La cittadinanza sta passando dalla mentalità di coppia alla mentalità di gruppo. Sta diventando soggettiva. Sta cambiando il conflitto tra capitale e lavoro, perché sta ribaltando i due poli del capitale-denaro ed il lavoro-attività.

Il perdono invece dal canto suo è un concetto vecchio, ma relegato sempre nel mondo dell’utopia. Si tratta di un concetto analogicamente molto simile al benessere. Ha la caratteristica di essere soggettivo e diffuso. Deve essere inventato perché non esiste in natura. Proprio come il benessere. Rappresenta la quarta modalità dello sviluppo umano, quella basata sulla speranza-promessa e non sulla paura-minaccia. Rappresenta l’emergere della soggettività. Le tre modalità con cui il soggetto risponde ad un danno subito sono innanzi tutto la vendetta, cioè il recare un danno equivalente a chiunque ha prodotto un danno. Quasi tutta la giustizia si basa sul concetto ebraico dell’occhio per occhio; dente per dente. Poi si risponde con la fuga, cioè allontanandosi per diminuire la sofferenza psichica che il danno subito ha prodotto. Si cerca di salvare almeno il soggetto. Infine si usa la rimozione e la dimenticanza. Non veder non sentir m’è gran ventura, scrisse Michelangelo in una sua famosa poesia.  Oltre a questa modalità della dimenticanza non si è andati sinora. Si sono sempre invocate punizioni e si portavano le persone al letto di morte dei loro nemici perché le potessero perdonare. Sono state fatte infinite esperienze, ma il perdono non è mai entrato a far pate delle regole della negoziazione.  Solo recentemente si sono avute elaborazioni soggettive dell’idea di perdono, come in Sud-Africa, in Spagna ed in Bosnia. Gli spagnoli hanno mostrato come, col “pacto de olvido” alla fine del regime franchista hanno facilitato il loro sviluppo ed il loro passaggio alla democrazia.  La vendetta e la fuga non pano più. Il perdono on è un fatto etico, ma un fatto estetico. Non è un dovere, ma un vantaggio.

La quarta modalità è il perdono cioè l’arbitrio del soggetto che non reagisce ad un’offesa-danno subìto con i tre modi abituali, ma con un modo diverso e soggettivo e derivante dal sentimento del donare. Un tempo il soggetto era l’errore: oggi è la creatività. Un tempo l’organizzazione era oggettività: oggi è soggettività. Perdonare un tempo era una dimensione etica e sociale, una sorta di superiorità rispetto all’offesa ed alla persona che la fa. Oggi è sempre più soggettiva e sempre più negoziale. Ma non vuol dire dimenticare. Un perdono che dimentica l’oggetto del perdòno è una rimozione. Per questo Giolitti diceva: perdonare spesso, dimenticare mai. Perché il perdòno persiste sempre nella sfera della soggettività. Non può trasformarsi in dimenticanza.

Ed a causa di questo bisogno di ricordare, deve affrontare  anche il negoziato con sé stesso. Infatti il perdono più difficile è quello verso sé stessi. E non c’è perdono senza memoria. Il perdono è negoziato interno e soggettivo con il proprio destino.  fatto soggettivo, un per-dono, quindi entra nella categoria del dono, quindi totalmente arbitrario. Ma il dono può essere effimero, mentre il per-dono no. Qui sta la differenza. Un dono che per-siste nel tempo e nella soggettività. Il per-dono è così una dimensione permanente della rinuncia a vendicarsi, fuggire o dimenticare. La base di tutti i perdoni è il perdonare sé stessi. La motivazione di tutti i perdoni è il benessere. Il valore aggiunto di ogi perdono sta nella maggiore benessere che porta al soggetto che lo usa. Perché, come ha detto l’arcivescovo Tutu di Città del Capo, premio Nobel per la pace. Non c’è futuro senza perdono. Questo ci fa passare dal mondo del malessere a quello del benessere. Dalla bontà alla bellezza. Egli racconta il  miglioramento della vita di tutti in Sud Africa, quando il perdono ha permesso di pensare al benessere del futuro   e non alla punizione del passato. Ciò ci fa passare dalla mentalità etica del passato a quella estetica del futuro. Dal perdono come dimenticanza al perdono come progetto di benessere. Se si dice che un soggetto è un progettista di benessere, si può dire anche che il perdono fa parte del progetto di benessere di ogni soggetto. E si può inoltre dire che il progetto deriva dalla negoziazione col destino, con la trasformazione del dominio in parità e con il  benessere che diventa bellessere, bontà che si trasforma in bellezza, vendetta che si sviluppa in perdono, liberazione in definitiva dal proprio passato.

Una domanda viene spontanea: è possibile imparare a perdonare? Esiste una vasta letteratura sull’argomento. Esistono corsi, libri ed esercitazioni su comne perdonare e sui vantaggi psichici del perdono, soprattutto dal punto di vista dell’offeso. Una sintesi di queste tecnichge è contenuta nel  bel libro di Camillo Regalia e Girgia Palerai, Perdonare, edito dal Mulino quest’anno. E’ importante dire qui che è possibile imparare a perdonare ed a rendere più creativa la cultura negoziale.

Allora cosa vuol dire negoziare col proprio destino? Essendo la negoziazione composta da un numero pari di protagonisti e quindi da due fronti, occorre che il vantaggio comune o meglio la somma dei vantaggi delle due parti, sia massimo. Altrimenti il negoziato non riesce. Se una delle due parti sono io ed un’altra è il mio destino cosa succede del negoziato? Dove sta il massimo vantaggio delle due parti? Né io né il mio destino possiamo vincere. Perché così il vantaggio non si massimizza per tutti e due. Se voglio che il mio destino non stravinca con me, io devo rinunciare a stravincere con il mio destino. Qui si inserisce faticosamente l’idea di perdono. Poiché il destino non è bastato, poiché il dominio neppure e neppure la parità è riuscita a c0ntrollare il caso ed a permettere il progetto, occorre che gli uomini decidano soprattutto per il loro benessere ed il loro futuro. Negoziare col proprio destino vuol dire impadronirsi del proprio futuro. Non tutto ma parte. L’aumento della vita media degli uomini ne è un esempio. Un altro è il grado di conoscenza che gli uomini stanno acquisendo. Manca ancora molto spazio e tempo perchè gli uomini possano vivere un maggior benessere. Il perdono è una via per riappropriarsi del futuro. Un’altra è la bellezza. Un’altra ancora la cittadinanza. L’analisi di questi tre fattori permette di costruire una teoria della negoziazione col destino.  Sempre tenendo presente la connessione destino-dominio e quindi perdono-parità.

Molti sono i campi in cui l’idea di perdono può essere utilizzata. Uno dei campi più interessanti è quello del lavoro e dell’organizzazione. Perdonare giova al benessere psichico della vittima. I problemi della conflittualità, dello stress e del mobbing non possono essere risolti legalmente. Spesso la vittoria giuridica coincide con una forte sofferenza psichica. Occorre liberare i soggetti dal loro passato e dall’offesa subita. Nel lavoro questo vuol dire rivolgere le proprie energie al massimo verso il proprio benessere e bellessere, che possono essere molto migliorati usando  quella che qualcuno ha chiamato “l’arte di perdonare”.

 

Bibliografia sommaria

Tutu D., Non c’è futuro senza perdono, Feltrinelli, 2001

Regalia C., Palerai G., Perdonare, Mulino, 2008-05-22

Worthington E., L’arte del perdono, Eco, 2003

Scabini G., Rossi G., Dono e perdono nelle relazioni, Vita e

pensiero, 2000

Wiesenthal S., Il girasole, Garzanti 2002

Ricoeur P., Ricordare, dimenticare, perdonare, Mulino 2004

Nicoli O., Perdonare, Idee, pratiche, rituali in Italia tra cinque e

seicento, Laterza 2007

Talamo A. Roma F., La pluralità inevitabile, Apogeo, 2007

Derrida J., Perdonare, Cortina, 2004

Derrida J., Donare il tempo, Cortina, 1996



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