(A
J.Cortazar. I suoi estimatori sanno il perché. Gli altri, lo
immagineranno).
Quell’anno era
tutto un po’ così. Difficile. Anche da spiegare. Non avevamo ancora deciso come
andare avanti, se restare fermi o addirittura tirarci indietro. Come se avessimo
già vissuto cento vite: facevamo i soliti discorsi più o meno filosofici,
copiati da altri, visti nei film, con l’aggiunta di quel tanto di stupido che
solo i giovani visti dai vecchi sanno aggiungere. Perché non la facciamo finita? Ci chiedevamo, ma era più per darci
un’aria, nessuno lo pensava veramente.
Poi,
all’improvviso, ci venne addosso l’episodio che ci cambiò la vita. La nostra
esistenza rimase in bilico, sospesa nel vuoto per qualche tempo. Tutto
successe una sera di marzo. Un po’ di traffico, forse più del solito. Poi il
rumore di una frenata, lo schianto che sentimmo tutti seguito dal rumore di
lamiere che si contorcevano e le urla disperate seguite dalle sirene della
polizia e delle autoambulanze. Dario, un ragazzo del nostro gruppo, fu
investito da una macchina guidata da un folle che travolse lui insieme al
motorino che guidava e si fermò contro la saracinesca chiusa di un
negozio. Dario morì all’istante nonostante il casco. Fu sbattuto con
violenza contro un’altra auto che veniva dalla parte opposta e trascinato per
parecchi metri. Quando arrivò l’ambulanza non c’era più niente da fare. Io
ricordo con nitidezza la faccia di suo padre, alto ed imponente, un medico
conosciuto, con la barba curata e quasi bianca che chiedeva spiegazioni alla polizia
sulla dinamica dell’incidente mentre stavano adagiando suo figlio su di una
lettiga (lui lo aveva già visitato) e lo mettevano nell’ambulanza. La sua
faccia nella luce fioca della sera era seria, pallida e con il terrore negli
occhi. Alcuni di noi piansero mentre raggiungevamo a piedi l’ospedale dove
era stato portato.
Poi, dopo il
funerale, per una settimana al solito posto di raduno nessuno di noi si fece
vedere.
*
A Dario
piacevano i film, conosceva abbastanza cinematografia, era un cinefilo in nuce,
come si
«Paola ha stile, non solo attrice, non solo
donna, ha qualcosa in più».
Noi
concludevamo è innamorato. Era vero, si capiva.
«Ha una voce stupenda», pensavo io, e
già entravo senza neanche accorgermene nella schiera degli adepti, di quelli
che pensavano che lei fosse superiore, insomma… degli innamorati. L’avevo
vista in TV presentare programma che neanche ricordo il titolo, ma era bella,
si muoveva sicura, con la faccia da donna anche se poi il suo corpo era
di ragazza ed era stupendo. Qualcuno del gruppo era sopraffatto dalla passione,
non dormiva più, mangiava poco, girava in strada perso nel pensiero di lei,
tanto che gli altri (non tutti) per scherzare gli dicevano:
«…se
Paola vede come sei ridotto, non uscirà mai con te».
Uscire? se…se. Quel qualcuno ero io.
Certe sere dopo
averla vista sullo schermo mi sentivo male. Avevo il groppo in gola, come un
innamorato fantasticavo di poterglielo dire, di guardarla negli occhi, di poter
toccarla.
Lei la vedevamo
passare sullo schermo in tutti i cinema della provincia e ci spingevamo anche
in città, nelle periferie più insidiose ma non ancora pericolose, per vederla
in qualche fotogramma. Qualcuno di noi (il più stronzo) diceva che andavamo a
vederla recitare. A me della recitazione non mi importava un gran che. A me
importava il suo viso, guardare la sua faccia e il suo corpo. Di notte, poi,
l’avrei conciata io per le feste, avrei allargato a dismisura tutti i contorni
della pellicola in cui lei c’era e mi sarei intrufolato. Avrei avuto la parte
più importante, e tra tanti che la volevano, che la desideravano, di sicuro lei
avrebbe scelto me. Per me avrebbe lasciato il suo uomo, per farmi felice,
perché io, solo io, sapevo farla felice. Noi due avevamo un segreto che nessuno
conosceva.
Era nato tutto
per caso.
Avevo detto al
mio amico Franco che mi ero innamorato dell’attrice Paola Protagora e, come
succede, l’aveva guardata meglio e pian piano se ne era innamorato pure lui. Ma
io l’amavo di più. Ne ero certo. Lui non la capiva. Non capiva il suo sorriso,
la sua bocca. Non capiva quanto era sublime quando ti guardava e il suo accenno
di sorriso, come fare a spiegare che per me era il paradiso? Poi lui lo
aveva detto ad altri che, non so come, anche loro avevano notato qualcosa;
quella donna li attraeva, non sapevano spiegarsi bene, ma il suo magnetismo
agiva.
Infine eravamo
in sette che giravamo come pazzi nei cinema a guardarla, anche in dei film dove
lei appariva per qualche istante.
Una volta
venimmo quasi alle mani. Ero io il capofila, li avevo trascinati in una sera
livida di gennaio, il cielo scuro e cattivo, in un cinema brutto e sporco,
lontanissimo, impossibile da trovare. Lei aveva una particina infima, quasi
un’apparizione, e quando uscimmo ci investì una pioggia infinita. Uno di noi,
sembra Giorgio, ebbe il coraggio di dire:
«…ma chi cazzo
me l’ha fatto fare? Quasi non è neanche apparsa…»
L’investii con
tutta la mia furia. Quasi me lo mangiai, se non mi fermavano gli altri. Ero
pronto a picchiarlo. Per me quella piccola parte era sublime, perfetta la sua
interpretazione, bellissima nel suo vestito bianco, diafana, immortale. E poi,
meglio se non aveva una parte importante: ero più libero di inventare io di
notte, non dovevo seguire uno schema stabilito da un ruolo definito. Potevo
inventarmi meglio tutte le situazioni che volevo, potevo entrare io dove e
quando volevo, senza sconvolgere la trama, tanto non c’era. Anche se, per la
verità, non ci avrei pensato due volte a sconvolgerla, la trama, se per caso il
suo ruolo in un film non mi permetteva di entrarci bene.
Poi diventò un
problema sempre più serio. Andavo di nascosto al cinema da solo per rivedere lo
stesso film. Per rivederla di nuovo. Per lo più non lo proponevo neanche agli
altri, che comunque non mi avrebbero seguito. Lo dissi un paio di volte a
Marcello, che si limitò a sorridere, come per dire… ma tu sei tutto scemo!
Invece, una
sera venne Dario, un altro dei sette, a dirmi che aveva saputo che io inseguivo
Paola sugli schermi, e che rivedevo in altre sale lo stesso film visto con
loro. Pensavo che dicesse devi farti
vedere da un medico, che fosse preoccupato. Invece si prenotò. Mi disse:
«Quando ci vai
a rivedere il prossimo – fammelo sapere».
Glielo dissi.
Venne una volta.
Poi non più.
Io ero pure
contento, in fondo. Vivevo questo sentimento ambivalente per cui ero contento
che gli altri si interessavano a Paola, ma appena vedevo che si interessavano
troppo – diventavo geloso. Come tutti gli innamorati la volevo tutta per
me. Però, le sue frequenti apparizioni in televisione in quel periodo le
vivevo male. Era come se potessero portarmela via in tanti. Avevo molti più
concorrenti ora. La vedevo sempre volentieri sul piccolo schermo, ma non mi
eccitavo più di tanto: sapevo che non mi avrebbe potuto distinguere in quei
milioni che la guardavano, in tutta quella selva di occhi che le stavano
addosso. Invece, nel buio della sala, in un cinema di periferia, ero certo che
tutte le sua attenzioni fossero per me. E che i suoi occhi erano fissi nei miei,
estasiati e sognanti.
Poi vissi un
momento di assoluto sbandamento. Lei interpretò per la televisione la parte di
Lucia, nei Promessi Sposi. Il suo successo fu trionfale: milioni di persone la
domenica sera erano lì ad attenderla. Lei era buona, servizievole, sempre
bellissima, alle prese con tutta la trama del romanzone: sorrisi, pianti e
tutta la gamma dei sentimenti che Dio, Manzoni o chi per lui aveva mandato in
terra. Io non ero molto contento. Per vederla la vedevo. Come avrei potuto
perdermela: la sua figura mi era entrata dentro, non potevo farne a meno, ma
soffrivo. Sentivo, percepivo che altri, molti altri, si stavano, si erano,
innamorati di lei. Troppi ormai la conoscevano e la apprezzavano e io non
potevo sopportarlo. La sera, le domeniche dopo lo sceneggiato, a letto, mi
venivano le lacrime agli occhi. La sua interpretazione mi faceva soffrire. Lei
non era più mia, non era più di pochi, quei pochi in cui io avevo una parte o
almeno avrei potuto avere una speranza. Ormai erano di milioni di persone, e io
mi sentivo sempre più indistinto. Perdevo spessore, mi vedevo passare davanti
gente, uomini, belli stronzi che prima avrei preso a calci e sberle. Ora invece
tutti quei commenti su di lei non ce la facevo neanche a sopportarli. Erano
troppi, erano tanti. Mi veniva da dire, ma perché li dite tutti a me i vostri
fottuti commenti, le vostre opinioni su di lei? Ma era praticamente impossibile
non sentirli. Per me lei era, più di tutto, Giulia dei Pugni in tasca,
tenera e feroce, meschina e in fondo assassina. Perfetta amante, da brivido,
qualcuno direbbe da sballo (non io). Normale fuori e dentro, capace di tutto,
infantile e generosa che mi poteva amare come volevo io, come avrei voluto
essere amato. Sbandata perfetta, da salvare. Salvare da suo fratello, dagli
sguardi alle prostitute e ai loro movimenti, a come tenere la sigaretta in
bocca e tra le mani. Dal suo infantilismo, dal suo essere fuori. Era questo che
mi attraeva, se doveva essere la mia musa che almeno lo fosse in perfetta
regola, che ci fosse un nostro reciproco salvarci. Che mi togliesse da questa
valle di lacrime, da questa noia subdola, da un sacco di sensazioni inutili. Io
salvavo lei dalla perdizione, lei mi avrebbe evitato una grigia e monotona vita
di provincia. Almeno per un po’.
In questo
tormento, la persi di vista. La persi pian piano, senza mai dimenticarla del
tutto.
Una sera, anni
dopo (al cinema ormai non la si vedeva più) andai a vedere Paola a teatro.
Stavo con una
donna che in quel momento significava molto per me. Avvolto com’ero nel profumo
di lei che mi stava vicino, Paola sul palco mi sembrò lontana. Sempre
bellissima, forse in realtà anche più di prima, ma non più mia. Forse di chi? non volevo neanche
saperlo. Non l’ho mai seguita a teatro, avevo altro per la testa e poi,
lei, sì ha fatto teatro, ma non tantissimo. E il teatro è un circuito: si va in
un posto per un giorno o due, una settimana, hai un impegno, non lo sai e ti
perdi lo spettacolo. Alla fine, la verità, è che hai perso l’interesse. Gli
amori finiscono. Passano gli anni e un giorno la rivedi in televisione. Ma come è possibile? È ancora bella e ti
fa sempre lo stesso effetto. È un miracolo, qualcosa di soprannaturale. Per
caso, in una scena di ospedale, guardi il suo seno nudo. È perfetto. Come avrà fatto? Sarà stato l’amore o la maledizione dei suoi fans? Non lo sai. Sai,
lo sai, invece, che in fondo il tempo è passato, ma tu sei ancora là, a pensare
a quei giorni. Con Dario vivo e un brivido nella schiena. (E tu che sei ancora
e sempre innamorato).
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