1.
Il dibattito che pure si è
alimento negli ultimi anni su chi
dovesse essere il dirigente scolastico
ha visto impegnati due fronti contrapposti. In pratica, gli apocalittici e gli integrati, nelle cui
posizioni – a volte più complesse ed articolate - si potevano intravedere i
termini di chi difendeva situazioni superate, dove il capo di istituto era visto
come l’intellettuale chiuso tra le pareti della libreria aristocratica e critico
verso tutto ciò che avveniva fuori, e chi invece sosteneva la vulgata del
manager sempre in movimento, tutto preso dal fare.
Drucker nel suo “La società
post-capitalistica” a proposito di una auspicata riconciliazione tra la cultura dei manager e quella degli
intellettuali, facendone, anzi, una
condizione per la riuscita del programma globale di società della conoscenza,
dice: “I loro punti di vista sono contrapposti, ma sono contrapposti come due
poli complementari, non contraddittori. Ciascuno ha bisogno dell’altro
…l’intellettuale, se non è completato dal manager, crea un mondo dove ognuno fa
ciò che vuole ma dove nessuno fa nulla”.
D’altra parte, chi si concentra solo sul fare può perdere la capacità di capire
la direzione in cui sta andando, cosa gli sta accadendo vicino, a fianco, nella
società, risultando alla fine manchevole
sotto molti punti di vista. E per quanto riguarda il particolare mondo della
scuola, ciò risulterebbe essere ancora più grave.
2.
La dirigenza scolastica vive un
momento intenso e nuovo attraverso l’assunzione di diverse forme di
responsabilità ormai reali, e con un quadro di riferimento sia normativo che
culturale in parte stabilito anche se ancora in evoluzione.
Nella situazione attuale il
dirigente scolastico è il responsabile di un organo dell’amministrazione
pubblica. Come per tutti i dirigenti statali, attraverso un decreto legislativo
del 1993 egli è “responsabile
dell’attività svolta dal suo ufficio in merito ai risultati, della
realizzazione dei programmi e dei progetti affidati, in relazione agli
obiettivi, dei rendimenti e dei risultati della gestione finanziaria, tecnica e
amministrativa”. Poi, in linea con tutta una serie di funzioni e di
competenze che si andavano spostando dal centro alla periferia, anche per i dirigenti scolastici è stato
introdotto il concetto di valutazione, questo per recuperare la produttività in
declino dei servizi pubblici e per
valutare la corretta gestione delle risorse pubbliche.
Per la parte ormai acquisita
delle norme che regolano l’andamento della nuova dirigenza, forse giustamente, valutando
da dove si partiva, una vera e propria forma di metabolizzazione delle novità
ancora non c’è stata.
Ma da dove si partiva? Qual è il
retroterra, la storia che sta alle spalle del dirigente scolastico di oggi?
In grandi linee, potremmo dire
che ci sono stati quattro periodi essenziali della dirigenza scolastica
italiana.
Il primo periodo, pionieristico,
fondativo della moderna gestione della scuola, parte dalla legge Casati che è
del 1859 e che deve essere considerata a tutti gli effetti la prima legge sull’istruzione del Regno
d’Italia. In questi primi anni, nella figura del capo di istituto, preside o direttore
didattico, prevalgono in assoluto gli
aspetti culturali. Siamo in presenza della figura dell’uomo colto,
intellettuale al cento per cento, con un’appendice specifica per le questioni
più propriamente didattiche.
Un secondo periodo parte dalla
riforma Gentile del 1924. Il dirigente scolastico è considerato come un esecutore e un garante dell’attuazione
delle disposizioni di legge, dei regolamenti e degli ordini delle autorità
superiori. In questo periodo, nonostante il forte richiamo al ruolo di
esecutori di ordini che pure resta attivo e presente, presidi e direttori non
diventeranno mai acritici e banali sostenitori della politica culturale dettata
dal centro. Siamo nel periodo fascista, e potremmo far iniziare da questo
particolare momento la tendenza allo sforzo di coniugare un ruolo di semplice
esecuzione con l’attività di proposta, di stimolo, impulso e indirizzo che da
allora in poi non è mai mancato nelle scuole italiane.
Un terzo periodo va dall’immediato
dopoguerra e ed arriva fino alla scuola cosiddetta di massa. Nella professione
emersero gli aspetti più propriamente amministrativi e burocratici. Periodo non
facile per la difficoltà di dover conciliare l’organizzazione scolastica con le
esigenze della società e i richiami del mondo della produzione. In questa
situazione di disagio e malessere generale si giunse al 68’. Le riposte che il
dirigente dovette in quel periodo dare alle domande dei diversi interlocutori non derivavano da nessuna norma
e neanche da una cultura dirigenziale codificata, non erano supportate da
nessuna ‘grammatica dirigenziale’. Furono il frutto dell’improvvisazione. Le
richieste erano forti ma le risposte o erano grossolane e banali o di
contrapposizione o di prudente accettazione, fino al caso di alcuni capi di
istituto che diedero loro stessi le chiavi della scuola ai gruppi di studenti
che in assemblea ne avevano deciso l’occupazione. In pratica, mancanza di
riferimenti chiari e sbandamento totale.
Il quarto periodo, quello che
segna la vera e propria evoluzione del ruolo, parte dai decreti delegati del
1974. I punti cardine sono la partecipazione alla gestione della scuola di
forze e soggetti fino ad allora ritenuti estranei e quindi una gestione
collegiale delle pratiche e delle procedure che servono a far funzionare un
istituto scolastico.
In forma indiretta la legislazione
del 1974 chiedeva al dirigente di possedere le
abilità per arbitrare, per negoziare, per gestire conflitti, mediare tra
maggioranza e minoranza, avere cognizione delle dinamiche dei gruppi e riuscire
ad avere una qualche influenza sui comportamenti delle persone.
In pratica si trattava di
acquisire competenze da leader del settore educativo, per diventare una forza
di mediazione istituzionale nella gestione collegiale della scuola.
È evidente, però, che si trattava
di una mediazione che contrastava con un apparato e un impianto amministrativo
ancora estraneo ed impermeabile alle novità, che prevedeva una gestione
complicata, spesso velleitaria, molto formale, poco o niente in linea con i
tempi.
In effetti la modifica profonda del modello organizzativo,
il periodo che si sta vivendo attualmente,
parte proprio dal 1974. Da lì, con un orientamento caratterizzato sempre
più da flessibilità e autonomia, si arriva fino all’attribuzione della
personalità giuridica e all’autonomia organizzativa, finanziaria e didattica a
tutte le istituzioni scolastiche. Entrano in campo concetti come efficacia e
legittimità e il ruolo del dirigente
diventa sempre più attivo e dinamico.
3.
La dirigenza scolastica è stata
definita da molti una leadership per
l’apprendimento. Però, una
definizione che pure esprime l’idea di fondo e la sostanza di una
professione, da sola non basta a spiegare di che cosa si tratta e di che cosa
si sta parlando. Nel caso specifico, il
discorso va inserito nel contesto più
ampio della complessiva riorganizzazione del sistema scolastico, in coerenza
con il processo di riforma della Pubblica Amministrazione che ha trasferito fasi
importanti della progettazione del servizio dal centro alla periferia. Intanto,
tale trasformazione ha fatto sì che il capo di istituto di una volta si
trasformasse in dirigente scolastico,
cambiando di fatto la sua funzione e la sua identità professionale, in evidente discontinuità con il passato.
Alcune delle tappe fondamentali
di questo percorso possono essere sinteticamente così fissate: il decreto
legislativo n.29 del 1993 che avvia la riforma della dirigenza pubblica; la legge n.59 del 15 marzo 1997 che ha definito il nuovo sistema di
autonomia della scuola in vigore attualmente; il decreto legislativo n.59 del 6
marzo 1998 che ha disciplinato e attribuito la qualifica dirigenziale ai capi
di istituto delle istituzioni scolastiche autonome; il decreto legge n.165 del
2001 su tutti gli impiegati della pubblica amministrazione, che è una diretta evoluzione
di quello del 1993. Poi, nel 2002
arriva il primo contratto
nazionale per i dirigenti scolastici.
È sempre fastidioso elencare date
e citare leggi, ma in questo caso ci serve per sottolineare e ribadire che
tutto il cammino verso la nuova idea di dirigenza scolastica non è pensabile separato
dall’autonomia e da tutto ciò che questo concetto ha significato nella pratica.
C’è bisogno ora, però, di fare un
passo indietro e contemporaneamente fissare alcuni punti.
In effetti, quando nel 1993 con
un decreto legislativo i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni
pubbliche vennero disciplinati in modo privatistico, cioè allo stesso modo dei
rapporti di lavoro dell’impresa, la scuola ci entrò superando qualche forzatura
e qualche contraddizione. Era successo che nel corso degli anni la conflittualità
tra chi sosteneva il sistema pubblico e chi il sistema privato del rapporto di
lavoro diventasse sempre più forte. Per vicende di opportunità politica e
sindacale, si arrivò, attraverso il decreto, a stabilire che la base
costitutiva del rapporto di impiego fosse solo il contratto, allo stesso modo
di qualsiasi altro rapporto di lavoro subordinato, così come è tipizzato nel
codice civile.
I lavoratori della scuola si
trovarono inseriti loro malgrado in questo contesto e con qualche difficoltà ad
essere considerati alla stregua dei lavoratori delle altre pubbliche
amministrazioni: l’articolo 33 della Costituzione, comma 1, che richiama il
particolare che l’arte e le scienze sono
libere come è libero il loro insegnamento, poneva non solo questioni di
semplice differenza, ma metteva in
essere dubbi più sottili e sotterranei relativi ad un sentire e ad un
immaginario particolare.
In parte, poi, la peculiarità, la
distinzione, la specificità del mondo scolastico verranno successivamente
ribadite nel contratto nazionale di lavoro
del comparto scuola del 1995.
In seguito, con la legge sull’autonomia
(n.59 del 1997), ci fu il conferimento della personalità giuridica di diritto
pubblico a tutte le scuole. Cosa significa? Significa che ad ogni scuola viene
riconosciuta una sua specificità perché ha una vita propria, perché è considerata
un’unità sociale, un’organizzazione distinta dai singoli membri partecipanti. Chi dirige, progetta in funzione di
un’organizzazione collettiva, che è qualcosa di più e di diverso dalla singola somma delle parti.
La scuola diventa un’entità a se
stante, un’unità giuridica e quindi
persona giuridica.
Il decreto legislativo successivo
(6 marzo 1998 n.59) ha concesso
autonomia di gestione a chi dirige una scuola: si tratta di una norma che consente
ampi spazi di azione in campo didattico, ma al tempo stesso chiede il
conseguimento di risultati, efficacia, efficienza, produttività del servizio,
nonché trasparenza nell’azione.
Il cambiamento in pratica è
totale:siamo in un campo altro rispetto alla vecchia ‘scuola apparato’ e alla
filosofia politica che la ispirava.
La personalità giuridica attribuita
alle istituzioni scolastiche in base al diritto pubblico e l’autonomia,
contestualmente la qualifica dirigenziale ai capi di istituto, in pratica fanno
da spartiacque, operano una cesura con chi ancora pensa di trovarsi in
continuità con il passato.
Infatti, da questo momento, il
dirigente scolastico, essendo titolare del ‘proprio’ istituto e suo legale
rappresentante, diventa anche il
titolare di alcune specifiche relazioni
sindacali che ricadono da ora in poi sotto la sua responsabilità. Si tratta di norme
definite nel CCNL del comparto scuola. Niente di preoccupante per chi vuole
assumersi le proprie responsabilità, molto fastidioso, invece, per chi ha
sempre e solo eseguito ordini.
Inoltre, c’è l’ufficio di
segreteria e la funzione del ‘direttore dei servizi generali e amministrativi’ che
ne è il coordinatore con ampi poteri autonomi, i quali poteri, - anche se in conformità con le direttive di
massima - fanno capo al dirigente
scolastico e si inseriscono nel complesso della gestione unitaria dell’unità
scolastica.
In conclusione, il dirigente
scolastico oltre alla responsabilità dei risultati, ha responsabilità di natura
disciplinare, amministrativa, contabile, civile e penale. Insomma, la scuola
non è più amministrazione periferica del potere centrale.
Una distinzione va subito rilevata:
tra la carriera direttiva (di una volta) e la qualifica dirigenziale (di
oggi) c’è la distanza che passa tra due poli, una distanza di 180 gradi. In
pratica i due sistemi riflettono consuetudini, valori, prassi, programmi
diversi. Alla staticità del sistema scuola come apparato, di natura tolemaica,
fermo nella ripetizione dei propri statuti, si contrappone un sistema
scuola-servizio che è in evoluzione come i bisogni dell’utenza, è dinamico, di
natura copernicana. E ancora, la filosofia politica che sorregge un impianto
apparato, si fonda sui principi del
centralismo, della burocrazia verticistica e dà vita a modelli organizzativi
rigidi. Lo sfondo della scuola-servizio, invece, è basato sul cardine costituito
dall’autonomia quindi sul decentramento e su un’organizzazione flessibile.
Prendendo a prestito concetti e
parole da Enzo Spaltro, potremmo esemplificare il passaggio da una concezione
vecchia ad una augurabile condizione nuova, attraverso una serie di coppie di termini che rimandano a dei
concetti. Diremo quindi che la scuola sta percorrendo, e deve ancora farlo in
gran parte, la strada dall’idea di oggettività
all’idea della soggettività, dall’unità alla pluralità, dall’autorità
al consenso, dalla vittoria all’accordo, dalla guerra alla
pace, dall’opacità alla trasparenza,
dall’imposizione alla negoziazione, dalla quantità alla qualità,
dal passato al futuro, dal dominio alla parità.
Su ognuna di queste coppie si
potrebbe parlare a lungo ma lo scopo ora è solo quello di mettere a fuoco un auspicio e una speranza. Niente
di peggio del pericolo sempre in agguato del cambiare solo il vestito, gestire
l’autonomia con la mentalità del sistema apparato non porterebbe da nessuna
parte.
4.
Se si pensa che una ricerca dello
IARD di pochi anni fa mise in luce il fatto che l’81% dei maestri elementari,
l’85% dei docenti delle scuole medie e l’89% dei docenti delle superiori, erano
convinti che il proprio capo di
istituto non fosse veramente capace di organizzare
e di coordinare il lavoro degli insegnanti, il cammino da fare è ancora
tantissimo, nel senso che bisogna lavorare per scardinare tali convinzioni
dimostrando sul campo i risultati del cambiamento.
La nuova figura professionale del
dirigente scolastico dovrà intanto muoversi seguendo alcuni principi, consapevole
di essere un fattore di progettazione e di innovazione, pronto a gestire e
valorizzare le persone al fine di perseguire dei risultati.
Ciò significa che dovrà aver
presente:
a)
la dimensione giuridico formale: quella più propriamente
amministrativa, un’area che richiede non
la semplice applicazione delle norme ma la loro interpretazione e la loro
utilizzazione per la risoluzione dei problemi e per il conseguimento dei
risultati che la scuola si prefigge;
b)
la dimensione organizzativa: vale a dire la conoscenza
e l’utilizzo di alcune regole di base
per gestire un organismo e stabilire relazioni positive con le persone,
valorizzarle, diffondere leadership;
c)
la dimensione educativa: il possesso di competenze per
analizzare i fenomeni educativi ed assumere una funzione di guida pedagogica
all’interno della propria scuola, ma non solo.
Innanzitutto, però, bisogna convincersi
che l’autonomia è un utile strumento per fare, non per nascondersi: se non si hanno idee o non si ha
intenzione di “fare”, l’autonomia non serve, anzi, è di impaccio e di ostacolo.
La scuola come organizzazione
complessa che agisce a più livelli autonomi, che a loro volta interagiscono e
si intersecano, certamente pone problemi
di gestione.
Intanto, come ricorda Piero Romei,
avere la pretesa di gestire la complessità è fuorviante, la complessità più che
gestirla bisogna interrogarla ed è poi
indispensabile essere in grado interpretare le riposte che si ricevono.
Nella scuola voler conoscere
tutti i fenomeni e volerli gestire, diventa
praticamente impossibile; ci sono in essa una serie di ‘legami deboli’ che
impediscono di predeterminare con certezza i comportamenti, le azioni e i risultati
conseguenti. Prendiamo ad esempio la questione del ‘prodotto’ (parola abusata da adoperare con tutte le precauzioni
possibili): per la scuola è il servizio da offrire agli studenti, è l’insegnamento.
Bisogna che esso sia di ottima qualità per
indurre apprendimento Di conseguenza, anche l’apprendimento è un prodotto della scuola. Però, di fatto, questo si trova esposto a influenze esterne
dominanti e quindi non si possono avere certezze assolute di risultati.
Era solo un sintetico esempio per
sottolineare la situazione di difficoltà, il rischio ma anche il fascino, e poi
la scommessa che deve accettare chi è deputato a coordinare l’organizzazione
scolastica.
Ma ora proviamo a leggere in
maniera diversa alcuni termini già ampiamente usati: un cammino, un passaggio, un cambiamento devono portare
anche visioni e concezioni nuove.
Prendiamo la leadership. In modo
perentorio ed efficace Enzo Spaltro afferma che nella scuola si sta passando progressivamente dalla leadership alla
membership. È arrivato infatti il momento di comprendere più chiaramente ed
intenzionalmente la soggettività e il suo ruolo nella vita scolastica e nella
vita lavorativa. Questa è la radice di ogni partecipazione: la soggettività.
Non si può liquidare la richiesta di qualità riducendola al controllo di
qualità, dimenticando che il passaggio dalla quantità alla qualità rappresenta un
cambiamento culturale: dall’etica all’estetica, dall’oggettività quantitativa alla
soggettività qualitativa, dalla leadership alla membership, dal comando
all’appartenenza e quindi costituisce una mentalità partecipativa, negoziale e
consensuale. E, ancora meglio, spiega
che oggi il sentimento di leadership si
sta sempre più identificando con l’idea di membership, cioè di appartenenza. Il
leader può così essere considerato come il soggetto che possiede il più forte
sentimento di appartenenza in gruppo.
Forse, allora, ci sono alcune
domande preliminari che bisognerebbe fare al dirigente scolastico per il
presente e soprattutto per il futuro. Gruppo, appartenenza, consenso: hanno
valore? Quale valore hanno?
Un dirigente scolastico oggi è
chiamato ad applicare la sua linea, a dare il suo contributo, il suo apporto, e
a seconda della sua personalità e delle sue idee, a scegliere dei percorsi piuttosto che altri. Dovrebbe esplicitare,
allora, la sua idea di servizio, che cosa è il pubblico. C’è bisogno che si interroghi, ad esempio, su
che cosa intende per potere. Sempre Spaltro ci indica un possibile percorso: “…
e poiché il potere consiste, come ha scritto Rollo May, sempre più nella capacità
di ‘promuovere od impedire cambiamenti’, il territorio del pubblico si
trasforma da campo del dominio e del potere unilaterale a campo delle parità e
dei poteri reciproci”.
E poi ancora, sugli stili di
comando. Si può pensare che sono una
metafora rappresentata con diversi modelli, uno è quello di Likert, autoritario
autocratico e paternalistico, partecipatorio consultivo o di gruppo. Un altro è
quello basato sul modello: assenso, dissenso, consenso come individuazione nel
comando di una delle forme di esercizio del potere e della trasformazione del
dominio in parità. Un altro ancora è quello della differenziazione del comando
con tre leadership: gerarchica, tecnofunzionale e socio emotiva. Occorre nella
funzione pubblica usare diversi modelli, perché la pluralità degli stili di
comando porta all'uso del piccolo gruppo ed alla partecipazione nell'ambito
della funzione pubblica.
Le questioni sono aperte. Ma sono
aperte anche su di un fronte di natura più strettamente contenutistico,
relativo alla questione decisiva del senso e dello scopo del fare scuola. Se lo scopo di una qualsiasi azienda è il
profitto, per la scuola la questione non è così semplice? Quand’anche riuscisse
a vendere bene il proprio lavoro, siamo sicuri di essere nel giusto?
La dimensione educativa, il senso profondo del perché si fa scuola in questo preciso momento storico, come ha avvertito Postman, ha bisogno di essere ridefinito. Ad esempio, recuperare il rispetto per l’apprendimento è un programma che va la di là di un qualsiasi discorso sul prodotto.
La dimensione educativa, il senso profondo del perché si fa scuola in questo preciso momento storico, come ha avvertito Postman, ha bisogno di essere ridefinito. Ad esempio, recuperare il rispetto per l’apprendimento è un programma che va la di là di un qualsiasi discorso sul prodotto.
Altrimenti il rischio è quello di
rinnovare gli strumenti senza considerare il perché li si rinnova. Fare
discorsi intorno al progetto di offerta formativa, all’organizzazione,
all’innovazione e superare il fatto grave che ormai da qualche anno, abilmente,
l’establishment della scuola, di qualsiasi colore politico, nasconde che essa
non è più capace di essere uno strumento di mobilità sociale, detto brutalmente, il figlio di genitori con
una bassa scolarità, al di là delle proprie capacità, ha molte meno probabilità di laurearsi, dovrebbe
far riflettere non poco. Una scuola pubblica ‘elitaria’, che non permette
matrimoni misti, è povera e si
impoverisce sempre più, è debole, malata,
è una non scuola. E contraddice tutti i
bei discorsi che tra le righe sono stati fin qui fatti. Il punto è: un
dirigente scolastico, che non è un dirigente qualsiasi, questi interrogativi di
fondo, costitutivi della sua professione, li deve solo conoscere, approfondire,
toccarli tangenzialmente, farli propri o
sentirli come un dovere?
Se la complessità pone sempre
problemi, il nostro, per quanto riguarda la professione del dirigente
scolastico si sostanzia in una domanda: ci sono oggi programmi seri per
costruire un efficace canale di reclutamento alla professione? Se dopo il corso
di formazione iniziale di riconversione altra
seria formazione non c’è stata; se ancora si continua da parte ministeriale e
sindacale a fare leggi e leggine per sanare
le situazioni dei collaboratori e dei vicari, qual è lo spazio per le vere novità?
O ancora e sempre bisogna sperare
che gli alunni, i genitori, gli insegnanti, il personale di segreteria e quello
ATA, capitino in una scuola con a capo un dirigente colto, interessato, adeguato
e competente? Un po’ come scommettere sul terno al lotto.
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