racconto FAMIGLIA



° Gli abitanti della zona V. sono bassi, grassi e coperti di pelo.
Hanno i piedi così straordinariamente piccoli che cadono facilmente
e quando riescono per caso a camminare sono goffi, lenti e ridicoli.
Pertanto,  chi vuole colpirli con pallottole di fucile o di pistola,
è facilitato nel compito.

° Quelli della zona V. hanno le orecchie così grandi che quando dormono
non hanno bisogno di coperte né di pigiama. Si riparano con esse.

° Le persone della zona V. sono di tale fetore e pestilenza
che non riescono neanche a sopportarsi tra di loro,
e quindi non hanno contatti, non si accoppiano. Sono destinati a scomparire.
                                                                                                                                                                                                            (F.L.M.)

Personaggi e interpreti:

IO
TU
PADRE  
MADRE 
SORELLA
FRATELLO 
ZIA 


1. Fratello

   Il mio amato fratellino nacque da uno stralunato agricoltore che era sempre in crisi di debiti e da una donna della quale si ricorda la sua spiccata abilità culinaria. Il padre lo abbandonò quando aveva solo sei mesi e la madre alla immediata vigilia del suo quinto compleanno. Era rimasto solo e se lo accollò uno zio che lo portò con sé in una fattoria del Missouri (a dire la verità era nella bassa padana in provincia di Cremona). Lì gli insegnò a mungere le vacche e ad arare i campi. Ma mio fratello si annoiava da morire perché lo zio non aveva figli e non c’erano altre fattorie nelle vicinanze. Per questo motivo al mio amato fratellino spesso gli montava una tale rabbia che per calmarsi spaccava con l’ascia una montagna di legna. A suo zio poco importava della rabbia, bastava che ne spaccasse almeno tre quintali per volta perché a lui facevano  male le braccia. Sono convinto che da parte sua mio fratello avrebbe volentieri spaccato qualsiasi altra cosa gli fosse capitata a tiro nei suoi momenti topici. A forza di inveire, gridare e spaccare, convinse suo zio a mandarlo a scuola lontano dalla fattoria. Lo zio, conoscendolo, lo iscrisse ad una scuola per disadattati mentali. Lui quando se ne accorse si arrabbiò così tanto che spaccò con un solo colpo di spranga la vetrata di entrata della scuola che era tre metri per sei. Da quel momento sia il preside che i professori erano tanto terrorizzati e lo temevano, che non si permisero mai più di dargli il benché minimo fastidio. Comunque quando diventò adulto e ricco (poi vi spiego come) si ricordò di quella scuola e poiché si trovava a passare da quelle parti pensò subito di fare un salto fin là per il gusto di spaccare di nuovo la vetrata che nel frattempo era stata chiaramente sostituita. Poi pensò anche di mandare alla scuola un assegno in segno di riconoscenza, ma pur scervellandosi non riuscì a trovare un solo motivo valido per farlo. Optò, così, per la prima soluzione ma introdusse una variante. Arrivò fino all’ingresso della scuola con la sua auto, abbassò il finestrino, e sputò con tutta la sua forza, riuscendo in modo esemplare a centrare proprio l’altezza della serratura.
   Ma il mio povero fratellino ne passò di cotte e di crude. Proprio in quel periodo si mise a frequentare gli ambienti più malfamati e degradati del posto, diventando ben presto conosciuto per la sua abilità a scatenare risse e a far degenerare qualsiasi colloquio, contatto, relazione con chiunque. Aveva appena compiuto sedici anni che sua madre [che donna!] si ricordò di lui con un telegramma. Non voleva saper come stava, ma lo invitava al suo imminente matrimonio. C’era accluso un biglietto di pullman per New York (o forse era solamente Milano). Lui che non aveva mai visto la grande città e ansioso di farlo salì sul treno (aveva provveduto a cambiare il biglietto). Fatto sta che invece di giungere nella grande mela o nella città bevibile, avendo conosciuto in treno un suo coetaneo si imbarcò a Genova su una nave mercantile improvvisandosi mozzo, cuoco e addetto al controllo merci. Una volta in mare aperto provò un senso di libertà come non lo aveva mai provato. Nello stesso momento conobbe il valore della solidarietà e dell’amicizia grazie al coetaneo conosciuto in treno che era di Genova. Si chiamava Edoardo.
   Passò appena un anno e Edoardo che covava dentro di sé il demone della poesia avanguardista e che sarebbe diventato di sicuro un grande poeta, si tolse la vita. L’episodio sconvolse talmente mio fratello che decise di arruolarsi nell’esercito. Ma sottostare alla dura disciplina non era il suo forte e infatti passò più tempo in prigione che in libera uscita. Poi venne il giorno del suo riscatto quando cinque suoi commilitoni rimasero intrappolati in un incendio scoppiato nell’ala del magazzino destinata alle coperte e alle lenzuola. Lui, sprezzante del pericolo, vedendoli terrorizzati, si lanciò tra le fiamme, sfondò con un solo colpo una porta che stava in fondo al corridoio facendoli uscire direttamente all’aperto nel cortile. Tutta la caserma lo portò in trionfo. Ed egli si congedò nel pieno del successo, preferendo vagabondare in cerca di un lavoro.
   Fu così che fece il lavoratore stagionale nella raccolta dei pomodori in Campania, il gondoliere a Venezia, il fattorino a Milano dove era giunto perché si era innamorato di una modella. (In questo periodo fece anche il camorrista e il giocatore professionista di poker). Poi finalmente gli arrivò il colpo di fortuna. Giocò al superenalotto e vinse più di dieci milioni di Euro. Nel giro di tre o quattro anni si sposò tre volte (sempre all’estero), ma furono matrimoni brevi e sempre improntati all’uso della violenza. Tra un matrimonio e l’altro disse che tutti gli uomini sposati hanno provato almeno una volta la sensazione di non sopportare neanche il respiro della donna che hai accanto e allora significa che è venuto il momento di smetterla.
   Il carattere insofferente e ribelle nonostante la ricchezza non si addolcì neanche un po’. Anzi. Ebbe una crisi depressiva che combatté a modo suo: con droga e alcol. Si fece crescere la barba e ingrassò di quindici chili. Passava il tempo a cavallo della sua moto, girovagando da una città all’altra, insieme ad un gruppo di centauri a cui offriva denaro e ospitalità.
Una sera scoprì di essere malato. Un medico dell’ASL a cui si era rivolto gli diagnosticò una rara forma di tumore provocata dalla prolungata esposizione all’ASBESTO. Maledisse i mesi che aveva trascorso sulla nave, praticamente ogni momento a contatto con il carico di quel materiale stivato nella pancia dell'imbarcazione.
   Come al solito non accettò i consigli del medico che gli aveva diagnosticato il cancro e decise di curarsi a modo suo. Si trasferì nelle montagne dell’avellinese dove un medico tipo santone aveva ottenuto risultati miracolosi in casi analoghi al suo. Si mise totalmente nelle sue mani e per tre mesi ingurgitò oltre cento pillole al giorno sottoponendosi ad estenuanti iniezioni di cellule di capra. Era sicuro di farcela anche questa volta. Morì sotto i ferri del suo medico che gli stava cercando di estrarre una metastasi dall’addome. Le sue ultime parole furono:
" La vie est una merde." 

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