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Padre
Mio padre ha studiato lingue per
corrispondenza. Ha fatto mille mestieri, se li è inventati. Ora è un ‘global equity leader’ o ‘account director’. In pratica – il
responsabile mondiale di un’azienda che produce per l’igiene intima femminile.
La mattina alle sette mentre beve il caffè
che gli prepara mia madre (il nescafè) lui parla già al telefonino con il
Giappone, la Corea, la Cina, perché lì sono già in piena attività. La sera poi
hai voglia di aspettarlo a tavola! Lui è sempre lì, al telefono, con gli Stati
Uniti e l’America Latina (perché lì sono ancora in piena attività). Lo capisco.
Sta sempre in giro per il mondo, deve conoscere le culture, le abitudini per
adeguare il messaggio con il quale accompagnare le pubblicità. Quando viene a
tavola dice sempre, come i vecchi:
“Vendere un Tampax in India o venderlo in Usa presuppone un messaggio molto
diverso.”
Che non so che c’entra con il suo ritardo,
ma è chiaro che ha bevuto già qualche bicchierino e allora, per trarsi
d’impaccio, dice la solita frase. Dopo, a
tavola, non è che vada molto meglio. Dice le solite tre o quattro frasi.
Ora, io, quando non sapevo che fosse già ubriaco prima di arrivare a tavola, pensavo
che per vendere qualcosa bisogna dire sempre le stesse cose. E così avevo
concluso che io non sarei mai stato un venditore, perché a me… già la seconda
volta che sento (o per forza devo dire) la stessa cosa – mi viene il
voltastomaco.
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