Con
la legge 40 del marzo 2007 si è finalmente stabilito che gli istituti
professionali resteranno nel sistema dell’Istruzione Statale. È già qualcosa.
Anche se, subito dopo, con la riduzione degli orari del biennio, che, stando alle motivazioni voleva
essere un provvedimento a favore degli
studenti e nei fatti, invece, si è rivelato
un provvedimento per tagliare organici e ore di tirocinio e laboratorio,
siamo finiti nel solco solito. Come se
equiparare orari fosse un messaggio di uguaglianza di per sé e non una
possibile ingiustizia, seppellendo il noto passaggio ( don Milani) del voler
far parti uguali tra diversi. Ma non è questo il problema, o non solo
questo. Se guardiamo alcuni dati sugli
istituti professionali statali forse riusciamo a farci un’idea meno generica su
questo strano soggetto di cui pochi
parlano, ancora meno lo conoscono, altri non lo vogliono o meglio non lo
volevano, tutti pretendono di riformarlo,
quasi tutti ne sono scontenti.
Il primo dato: su circa due milioni e 500mila alunni che
frequentano le scuole superiori, 540mila frequentano gli istituti
professionali, vale a dire il 21, 23 % della popolazione scolastica delle
secondarie;
gli istituti professionali sono divisi in 5 settori; hanno
23 indirizzi di studio; assegnano 35 tipi di qualifiche triennali e 25 tipi di
diplomi di maturità.
La percentuale di alunni H che frequenta gli istituti
professionali è del 2,81%. A fronte dello 0,24% dei licei e dello 0,46 % degli
istituti tecnici.
Gli indirizzi più gettonati dagli alunni stranieri sono decisamente gli istituti
professionali, dove l'incidenza sul totale degli alunni nel 2004/2005 è stata
del 4,57 per cento. Con record al primo anno (7,35 %) e nelle regioni del Nord
Est del Paese che, sempre al primo anno, fanno registrare 13 alunni stranieri
su 100.
Gli istituti professionali risultano avere la più alta
percentuale di alunni non promossi il 19,3%,
quasi uno studente su cinque.
Inoltre, sono gli istituti professionali ad avere la più
alta percentuale di docenti precari, praticamente quasi la metà. Precisamente
il 42,72 % di chi insegna negli istituti professionali è precario.
La
lettura di questi dati dovrebbe far balenare
l’idea che gli istituti professionali siano una scuola problematica. Una
problematicità, beninteso, tutta da verificare, di fatto però una realtà difficile da organizzare e far
operare, da far vivere e soprattutto da modificare.
Modificare,
ecco. La difficoltà di modificare sta tutta nel modo di intendere questo tipo di scuola che si innesta su una
difficoltà preesistente, cioè la grande difficoltà di modificare atteggiamenti
e mentalità all'interno di tutta la scuola. Non a caso esiste una specie di storia/favoletta che sembra tutt'ora
in voga, e per chi non la conoscesse dice questo: c'è un uomo che viene ibernato e risvegliato dopo
trecento anni. All'improvviso si trova catapultato in un grande città, tra
traffico, rumori, smog. Si ferma davanti ad una edicola e tra colori, giornali,
video e gadget si sente venir meno. Ai
suoi tempi non c'era nulla di tutto questo. Poi vede una scuola, attraversa la
strada con il cuore in gola, pensa a chissà quali sconvolgimenti si troverà di
fronte. Entra e si trova subito in una dimensione che lo rassicura: niente è
cambiato, tutto è come lo aveva lasciato secoli prima. La disposizione dei
banchi è ancora quella, mura e corridoi più o meno uguali.
A rendere ancora più difficoltosa una visione
modificata delle cose di scuola, e un atteggiamento nuovo nei confronti degli
istituti professionali, ad esempio, c’è il fatto che permane nell’immaginario
popolare, quindi nel profondo, una sorta di gerarchia collegata alle scelte del
tipo di scuola che si perpetua nei decenni, ed è più o meno questa: gli alunni più bravi vanno al liceo classico, quelli
bravi ma un po' meno vanno allo scientifico, e poi giù giù a scendere, fino a
quelli che vanno bene solo per gli istituti professionali, praticamente gli
ultimi.
Una
situazione del genere che può anche rispecchiare una realtà, credo sia antieducativa al massimo grado. Probabilmente
nel contesto di in un istituto professionale,
la prima cosa da fare è togliere dalla testa dei ragazzi l'idea che loro
vanno bene solo per questo istituto, che valgono poco, che non sono portati per
lo studio. Dovrebbe essere fatto questo semplice gesto propedeutico prima di
iniziare qualsiasi discorso programmatico. A questo proposito, partendo proprio
da questo handicap di partenza, in rete si trova la lettera di una professoressa a dir poco
preziosa per chiunque voglia farsi un'idea della problematica. Proverò a
riassumere le due o tre cose che mi sono sembrate essere le più interessanti.
In
primo luogo il discorso sugli insegnanti
del professionale. Lei dice che devono essere più prepararti degli altri
perché devono conoscere talmente a fondo la loro materia da sapere quale parte
del programma può essere tralasciato
senza far cadere l'impianto. Continua dicendo che non bisogna innamorarsi di alcuni argomenti, non si
possono avere argomenti privilegiati
pretendendo che gli alunni studino quelli, ma adattarsi alle loro esigenze non dando
niente per scontato. Infine, non avere
la puzza sotto il naso, come spesso succede ad alcuni colleghi, pensando che ci si trova alle scuole
elementari quanto a preparazione degli alunni,
perché non è affatto vero.
In
fondo, la semplice verità è che nell’insegnamento bisogna puntare sempre in
alto, a maggior ragione in un contesto problematico. In parole povere non
bisogna semplificare gli argomenti
perché ci si trova al professionale, ma farlo se serve, quando serve,
sapendo quello che si sta facendo e soprattutto non credere che semplificando i
programmi si risolvano tutti i problemi.
Il
principio potrebbe essere rovesciato proponendo la scommessa, come insegnanti, di
superare le più intime convinzioni sulla materia che si
insegna, a fronte di un progresso, anche leggero, in termini di acquisizione di conoscenze da
parte degli alunni. Già forse questo sarebbe un cambiamento di prospettiva.
Su
di un altro versante, neanche si può continuare a pensare che il discorso più importante
sia essere inflessibili, essere severi, sulla critica francamente un po’
antica, che oggi la scuola non educhi più. È pacifico e scontato che oggi non
viviamo un'epoca di grandi sconvolgimenti rivoluzionari e basta guardare i
fatti per vedere che c'è accordo totale,
a parte poche eccezioni che non fanno testo, sul mettere in fila sanzioni,
norme, restrizioni, multe, proclami sulla severità, sull'inflessibilità e chi
più ne ha più ne metta. Eppure tutto continua ad andare come prima. Anzi, le
ultime indagini PISA (Programme for International Student Assessment) e anche i
dati Istat sulle conoscenze dei ragazzi delle superiori italiane sono pessimi.
Non sorge il dubbio che forse non è stata intrapresa la strada giusta? Non sarà
che, almeno su questo settore, si sta attuando una resistenza inutile
all'evoluzione sociale che è inarrestabile? Certo, la scuola oltre al ruolo di coscienza
critica della società, potrebbe
rappresentare una sorta di “regolazione” degli eccessi di marca postamaniana, ma è ancora così? E in Italia, è proprio così?
Ci sono i presupposti per espletare questo ruolo fino in fondo? Gli insegnanti,
i precari storici, dove, come e quando possono sviluppare le competenze adatte
per portare a termine un compito del genere?
E
gli istituti professionali, sono ancora
più svantaggiati dalle difficoltà aggiuntive?
A
questo proposito, sembra che ci siano
motivi ancora più profondi che determinano una situazione per cui gli istituti professionali statali appaiono sotto questa particolare luce.
Intanto,
non può passare inosservato il fatto che la scuola italiana non riesca più a
determinare mobilità sociale, anzi ne perpetui una preoccupante mancanza. E su
questo punto, tra i governi di destra e
di centro sinistra, nonostante una qualche differenza in termini di politica
dell'istruzione, nessun risultato diverso viene fuori. La scelta della
secondaria superiore, tra licei, istituti
tecnici e istituti professionali, in Italia è condizionata dal livello di
istruzione dei genitori, le capacità individuali dei ragazzi sono praticamente
ininfluenti.
Per
essere chiari, i figli dei laureati, indipendentemente dal loro livello di competenze,
frequenteranno il liceo e in prospettiva l'università; allo stesso modo la
scelta dell’istituto professionale è condizionata dal livello di istruzione dei
genitori in modo eccessivo. E infatti, le stesse indagini PISA rilevano che tra
chi frequenta gli istituti professionali, in quanto a prospettive di studio, solo il 15,9% dichiara di volersi laureare,
mentre lo dichiara l'80,5% dei liceali e il 34,5% di chi frequenta gli istituti
tecnici.
È
semplice retorica se ci si chiede che democrazia è quella che limita tale
mobilità sociale? E la mobilità sociale
dove potrebbe avere origine se non - anche - in un buon sistema scolastico
pubblico? Insomma, se neanche grazie alla scuola c'è la possibilità di superare
uno stato di indigenza, o anche solo superare di fatto i propri genitori in
termini di competenze, che speranza
abbiamo che le cose cambino? È ovvio, che queste cose sono state dette e
scritte, libri sull'argomento ce ne sono, e c’è stato pure chi ha detto che
oggi la situazione è peggio che ai tempi di don Milani, che esplicita una
grande verità ormai sotto gli occhi di tutti, ma tutto ciò non trova nessuna risposta politica. Neanche un accenno. E non è
una questione di destra o di sinistra, è una questione che coinvolge tutti, e
tocca essenzialmente un problema di democrazia.
Nel
rapporto stilato sull'argomento dall'Istat si dice esplicitamente che: " la classe
di origine influisce in maniera rilevante e limita la possibilità di movimento
all'interno dello spazio sociale". In pratica le chance di proseguire la
propria formazione dopo la scuola media non sono sostanzialmente mutate nel
corso del XX secolo. Anzi, negli ultimi anni la disparità è addirittura
aumentata. Oggi, il 60% circa dei figli di un genitore che possiede il
diploma di scuola media raggiunge il diploma di scuola secondaria superiore,
pochissimi la laurea. È legittimo chiedersi, allora, che senso ha parlare nelle
aule di scuole di uguaglianza e parità, se in una democrazia non si dà di più a
chi ha di meno.
Ma,
ad aggravare il tutto, contribuisce anche una parte non esigua del mondo della
scuola. In un suo testo, l’ex ministro della pubblica istruzione e linguista
Tullio De Mauro, spiegava le difficoltà del suo ministero a lavorare per una
scuola veramente di tutti. E la domanda che si sentiva fare dagli addetti era: perché, poi, dove sta scritto che devono studiare proprio
tutti? E
ancora, cos'è questo
egualitarismo a tutti i costi?
Nell'Italia del privilegio e di chi vuole continuare a mantenerli, questo è
quasi normale. Non lo è, non dovrebbe, nel mondo della scuola, anche perché ciò
implica un ritorno in termini di idee e sentimenti all’antichità, come se non
ci fossero state rivoluzioni, movimenti, lotte, affermazioni di principi,
costituzioni e carte di diritti.
Ballarino
e Checchi, nel loro saggio del 2006 "Sistema scolastico e disuguaglianza
sociale", spiegano in termini chiari e precisi che la disuguaglianza
dell'istruzione si traduce in un mancata possibilità per alcuni individui di
frequentare la scuola per uno stesso periodo di tempo, e che non si frequentano scuole equivalenti dal punto
di vista della opportunità di apprendimento. Alla fine quello che viene fuori è
che la disuguaglianza non è affatto determinata dai diversi livelli di abilità
e impegno individuali, ma da quei fattori che si sono finora detti.
Ora,
non sembri banale, ma gli articoli 3 e
34 della Costituzione sanciscono "la rimozione degli ostacoli di
ordine economico e sociale" e che
"i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto a
raggiungere i gradi più alti degli studi". E questo resta seriamente
inevaso.
Ma
è ancora più grave il fatto che tutto ciò genera quello che Checchi chiama il
processo di autoselezione degli
studenti, che ritiene possa essere responsabile del divario tra diverse
tipologie di scuole. Spiega chiaramente: "Se infatti si annullano gli
effetti relativi alle caratteristiche dell’ambiente familiare e gli effetti
ambientali (ovverosia la media a livello di scuola delle caratteristiche
dell’ambiente familiare), si osserva che le differenze tra studenti
frequentanti tipologie di scuole secondarie diverse tendono ad annullarsi. Come
dire quindi che un individuo, nato in una famiglia di laureati e finito in un
liceo, mostrerebbe un livello di competenze sostanzialmente analogo a quello di
un altro individuo, nato in una famiglia di genitori che abbiano completato
esclusivamente l’obbligo scolastico e che sia finito in un istituto
professionale, se si potesse annullare l’impatto dell’ambiente familiare".
Le
differenze reali non ci sono, permangono e persistono, tanto da determinare la
scelta della scuola, le differenze della provenienza dell’ambiente familiare,
complice, però, tutto il complesso di reti, professionalità, società che non
vede o fa finta di non vedere questa incongruenza. In primo luogo un
orientamento che non orienta all’interno di un sistema scolastico che nella
secondaria superiore non produce risultati apprezzabili in termini di
competenze. Qualcosa non va, ma cosa?
Chiederselo
con più insistenza non sarebbe male. Prima però bisognerebbe convincersi,
finalmente, che i ragazzi che frequentano gli istituti professionali non sono
né migliori né peggiori degli altri e che non c’è nessuna deriva giovanile in
atto, perché se deriva c’è da essere,
essa riguarda in primo luogo gli adulti: diceva Montesquieu, “Non sono
le nascenti generazioni che degenerano: esse si perdono soltanto quando gli
uomini fatti sono già corrotti”.
E
magari, acquisita questa prospettiva, guardare di più i sistemi scolastici
stranieri per non essere solo e sempre inchiodati ad un modello italiano che
non produce ormai risultati.
[2008]
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