Attenzione, ma quale attenzione?

Francesco Di Lorenzo

Lavorare sull’attenzione e sul gruppo implica lavorare sui sentimenti delle persone

Siamo in classe. Un insegnante dice ai bambini di stare attenti e d’incanto, chissà perché, tutti noi ci attendiamo che i bambini lo facciano per davvero. Capita spesso, invece, che questo non avvenga e allora via, libero sfogo a tutte le nostre possibilità: urla, accenni di crisi, richieste di spiegazioni agli esperti sul mancato evento.
Forse sarebbe caso di chiederci quale tipo di attenzione vorremmo da ogni alunno e da tutta la classe, ma prima ancora, dovremmo cominciare a domandarci “che cos’è l’attenzione?”.
A volte, ad esempio, usiamo un tono di voce forte, con tutte le connotazioni dinamico-relazionali che ne derivano, per chiedere qualcosa che il bambino in quel momento non può fare. O, probabilmente, non sa fare.
La domanda allora è: «noi, insegnanti, in questi casi, come dobbiamo muoverci?». Pensandoci, però, le possibilità che abbiamo non sono molte. O ci arrabbiamo e continuiamo a stupirci del fatto che i bambini non ci ascoltano, oppure introduciamo il nostro problema in un contesto più ampio, decentriamo il nostro punto di vista, non focalizziamo lo “sguardo” troppo e solo sul bambino, cerchia o angolazioni nuove e, infine, includiamo in questo contesto sistematico anche noi stessi. Se optiamo per la seconda soluzione, diventano plausibili domande del tipo: “io, insegnante, chiedo l’attenzione dei bambini, ma sto dando loro attenzione in questo momento? Li ho ascoltati stamattina? Ho chiesto di che cosa stavano parlando? Mi sono accorto se stavano discutendo dell’ultimo film di Walt Disney piuttosto che, ammettiamo, di Leonardo Di Caprio?”.
Ma procediamo per gradi. Andiamo al significato dell’attenzione e partiamo da una delle definizioni classiche, quella di William James. L’attenzione «è prendere possesso con la mente in forma vivida e chiara di un oggetto o di un pensiero tratto da quelli che sembrano possibili simultaneamente. La focalizzazione e la concentrazione della coscienza ne costituiscono l’essenza. Essa implica il ritrarsi da alcune cose per poterne trattare altre con efficacia».
Passando poi, con un volo rapidissimo, agli ultimi studi di psicologia sperimentale contemporanea, scopriamo che una delle piste di ricerca dello studiatissimo problema dell’attenzione è questa: «l’attenzione è la vigilanza, la capacità di rivelare determinati stimoli ogni qualvolta si presentano; essa implica uno stato di ALERTNESS (prontezza, sveltezza, vigilanza)». In breve, «essere vigili» per essere pronti a districarsi nelle diverse situazioni che si presentano nella vita di tutti i giorni. Detto in altre parole, essere pronti a spostare l’attenzione quando se ne presenti l’occasione. Come se fosse facile! Ma allenarsi a farlo può essere più che un buon inizio. L’esperienza fatta da un gruppo di dieci insegnanti operanti nella città di Napoli e nella provincia, coordinati dal dott. Settimo Catalano, psicologo e psicoterapeuta a Milano, può essere utile a chiarire alcuni passaggi fondamentali del tema in questione. Prima dell’esperienza, però, c’è stato il progetto. Elaborato e discusso dal gruppo di insegnanti, esso era incentrato su «Attenzione e Crescita relazionale del gruppo». È stato, poi, dopo aver ricevuto l’approvazione dei vari collegi dei docenti, proposto come esperienza in dieci moduli di varie classi di scuole elementari.
Il progetto prevedeva due fasi distinte:
Prima fase. Ha riguardato solamente gli insegnanti con un seminario teorico-esperienziale della durata di venti ore. Ogni insegnante ha sperimentato, in teoria e in pratica, la propria preparazione ad essere coordinatore del proprio gruppo-classe provando ad uscire dal ruolo abituale.
Seconda fase. La realizzazione dell’itinerario progettuale in forma pratica all’interno delle classi prescelte, con una serie di dodici incontri mirati alla «Crescita del Gruppo» di un’ora e mezza ciascuno, al di fuori della classe.

Sintesi del Progetto

Finalità: «Imparare a creare benessere»

Poiché negli ultimi tempi sul benessere sono stati richiamati talmente tanti significati, è forse più che opportuno precisare di quale benessere sì sia trattato in questo caso.  Per gli insegnanti che hanno partecipato al progetto, il benessere, seguendo le coordinate tracciate dal prof. Enzo Spaltro, è rapportabile a questi tre punti-chiave:
1. il benessere è lo stare bene con se stesso e con gli altri e si può apprendere;
2. per costruire benessere bisogna partire dal soggetto;
3. il soggetto non è pensabile senza pluralità e partecipazione.
Pluralità nel senso di superamento dell’angusto concetto di individualità (degenerazione della soggettività), gestione delle dinamiche connesse all’apertura al gruppo e dell’imparare ad avere relazioni sociali; partecipazione come volontà di mettersi in gioco, voglia di apprendere e possibilmente cambiare credenze, atteggiamenti, comportamenti.

Obbiettivi

      Imparare a dare attenzione e a riceverla;
      Imparare ad instaurare rapporti di comunicazione interpersonali corretti ed equilibrati;
      Ottimizzare le risorse interne della classe;
      Contribuire a creare un clima collaborativo e sereno;
      Rendere più felice e proficuo l’apprendimento curricolare.
Come si può facilmente notare i due tipi di obbiettivi, quelli eminentemente relazionali e quelli elettivamente  didattico-cognitivi, sono stati nel nostro caso interdipendenti e inscindibili. Si potrebbe sintetizzare il tutto con una frase che ben nasconde il desiderio di ciascun “insegnante”, far stare bene i bambini apprendendo.

Contenuti

      I tipi di attenzione;
      L’attenzione dell’insegnante;
      L’attenzione del bambino;
      La relazione insegnante-bambino;
      La relazione affettiva;
      La relazione di apprendimento;
      Il gruppo;
      Il gruppo classe.


Prima fase, il seminario con i soli docenti

Durante il seminario, che alternava momenti teorici a momenti pratici con simulazioni, giochi di ruolo e drammatizzazioni, ognuno di noi ha sperimentato la difficoltà di spostare l’attenzione, soprattutto quando ciò viene richiesto da un’altra persona.
Il nostro conduttore spesso ci chiedeva di interrompere quello che stavamo facendo in quel preciso momento, per spostare l’attenzione sul come lo stavamo facendo. Questo creava in tutti noi un palpabile fastidio. Così, sorgevano difficoltà quando nel mezzo di una discussione ci veniva richiesto di considerare come si stava discutendo, oppure, mentre si giocava, di considerare come si stava giocando. In realtà abbiamo sperimentato su noi stessi quanto può risultare difficoltoso, per una persona adulta, spostare l’attenzione volontariamente da un campo all’altro. Di conseguenza abbiamo considerato come deve esserlo per un bambino in età scolare, quando nella fase del suo sviluppo affettivo e sociale, vive momenti di autentica complessità e deve fare i conti con elementi quali la competitività, l’autoaffermazione, il bisogno di stima e il confronto con la figura dell’insegnante. La conclusione ovvia è stata che bisogna essere più comprensivi nel momento in cui comandiamo di fare attenzione ad un allievo e questi non ci riesce facilmente.
Ma spostare l’attenzione è un’abilità che si può di certo migliorare effettuando esercitazioni mirate, in pratica un po’ lo scopo del nostro lavoro.
Ad esempio, una proposta che abbiamo sperimentato su noi stessi – e che poi abbiamo ripetuto in classe – è stata il «gioco dello spostamento dell’attenzione». Ogni insegnante doveva descrivere in quel momento su cosa era concentrata la sua attenzione e poi provare a spostarla dalla vista all’udito, dall’udito al tatto, dal tatto ai ricordi, dai ricordi al gioco, e così via. "Per educare gli allievi all’attenzione, è necessario un insegnante disponibile a imparare a sviluppare la propria attenzione, alzandone il livello e potenziandone le prestazioni. Un insegnante capace di passare da un’attenzione abitudinaria a un’attenzione volontaria e di espandere la propria capacità sulle varie dimensioni dell’attenzione, in particolare sulla dimensione della mobilità. Infatti, un’attenzione mobile e flessibile è indispensabile per captare dai diversi campi esperienziali le informazioni necessarie per affrontare la complessità della realtà relazionale di una classe". (Settimo Catalano, Le porte dell’Attenzione, Kailash Editore Milano 1997)

 Una volta in classe coi bambini, il compito del conduttore, spogliato momentaneamente della veste di insegnante, è stato quello di far riflettere sulla fatica mentale che richiedeva un’operazione del genere.
Un’altra importantissima acquisizione della prima fase, per noi insegnanti, è stata aver appreso la procedura e la tecnica del metagioco.
Il metagioco non è il gioco, ma è il momento in cui si forniscono le modalità con cui giocare. Il metagioco appartiene ad un livello logico diverso. Il gioco è dare la consegna: "giocate a mosca cieca". Il metagioco è invece: «fate un gioco a cui tutti devono partecipare, senza che nessuno sia escluso». Nel metagioco, come si capisce, si deve decidere il gioco e quindi si devono superare le difficoltà di relazione e di comunicazione che sorgono e poi si deve giocare. Alla fine l’apprendimento risulta “rilevante” per quanto riguarda la messa in moto delle abilità sociali e di relazione. La mente del partecipante ha così interagito su un doppio livello, sul compito e su come lo sta facendo.
Un metagioco interessantissimo è la gara di ascolto, che con alcune varianti può essere giocato in ogni classe per esercitare l’attenzione. Eccone una sintesi.
L’insegnante-conduttore individua alcune operazioni che nel nostro caso sono state:  
1. Focalizzare l’attenzione su chi sta parlando;
2. Ripetere letteralmente le ultime parole ascoltate;
3. Spiegare il significato di una certa parola ascoltata;
4. Ripetere con le proprie parole il senso del discorso ascoltato;
5. Associare un’esperienza o un ricordo al discorso ascoltato.
Per giocare si fa in questo modo: si divide la classe in due squadre e si assegna un punto alla squadra dell’alunno che una volta interpellato dall’insegnante-conduttore è in grado di compiere ciò che gli viene richiesto. Si inizia con una sola operazione e si inseriscono gradualmente tutte le altre. Scritto sulla lavagna Focalizzare l’attenzione su chi sta parlando, l’insegnante conduttore dice che «chi riesce a fare quello che è stato scritto sulla lavagna fa vincere un punto alla sua squadra». Poi, continuando a parlare di un argomento precedentemente scelto, ad un certo punto guardando una bambina che poniamo si chiami Angela, dice: «in questo momento il mio sguardo è posto su Angela, poiché anche lei mi sta guardando, è attenta, assegno un punto alla sua squadra». Dopo si arricchisce il metagioco con le altre operazioni descritte sopra.
È importante in questo gioco che l’insegnante si fermi spesso ponendo delle domande agli alunni, così facendo si perderà del tempo ma si otterrà anche una grande attenzione.

Seconda fase, intervento in classe

Tutti i segmenti relativi alle procedure da attuare in classe con i bambini sono stati provati direttamente sugli insegnanti-conduttori. Di più. Tutti i segmenti del seminario della prima fase con gli insegnanti sono stati registrati, per avere sempre a portata di mano un documento visivo e proporre così correttamente l’esperienza nella classe. E, cosa ancora più importante, con la possibilità di correggere gli errori che inevitabilmente si commettono nelle fasi di un lavoro delicato come questo. In breve, ci è stato di grandissimo aiuto rivedere il nostro comportamento in un preciso momento, confrontarlo con quello dei bambini, correggere durezze ed errori di impostazione del lavoro.
Una volta scelte le classi, il lavoro sull’attenzione si è completato con gli incontri relativi alla «crescita del gruppo classe».
Per prima cosa, in ogni classe, si è provveduto a somministrare un sociogramma.
Il sociogramma è una tecnica di rilevazione dei rapporti interpersonali all’interno dei gruppi umani che è stata elaborata dallo psicologo di origine rumena Jakob Levy Moreno. Lo strumento fondamentale è il «questionario sociometrico», attraverso il quale ciascun membro di un gruppo è invitato a esprimere i propri atteggiamenti di «scelta» o di «rifiuto» nei confronti di tutti gli altri. In questo modo è possibile mettere in evidenza una rete di rapporti spontanei di attrazione e di repulsione che spesso si contrappone a quello che riusciamo a percepire di un gruppo. Nel nostro caso è stato importantissimo poter rilevare le relazioni esistenti nei gruppi delle nostre classi e scoprire, ad esempio, che alcuni nostri alunni vivono assillati da una vera e propria angoscia perché si sentono rifiutati da tutti, sono isolati e di conseguenza depressi.
Siamo poi passati agli incontri con gli alunni. Gli incontri mirati alla crescita del gruppo, della durata di un’ora e mezza ciascuno a scadenza settimanale, in pratica dovevano fondere il lavoro sull’attenzione e mettere l’accento sull’imparare ad avere relazioni soddisfacenti con gli altri. H. Gardner con la sua teoria della molteplicità delle intelligenze – in particolare quando tratta dell’intelligenza personale e interpersonale – è stato il modello teorico a cui ci siamo riferiti.
Un’aula possibilmente vuota, meglio se una palestra, è il setting (collocazione) ideale. Unica preoccupazione, lo spazio deve poter consentire giochi di movimento. L’insegnante che ha seguito il seminario ha dovuto, come già abbiamo accennato, assumere il ruolo di animatore di gruppo e spogliarsi del suo solito ruolo adottando un atteggiamento diverso difronte ai bambini, in special modo nello stile di comunicazione che «non esprimerà mai giudizi o critiche né verso il gruppo né verso i singoli partecipanti e dovrà interagire e contenere le diverse situazioni solo tramite l’uso di feedback, ovvero di informazioni di ritorno che diano agli allievi un’immagine o una misura di quello che gli stessi allievi stanno facendo. I feedback devono stimolare gli allievi a pensare in proprio». (Settimo Catalano, cit.)

È importante che l’insegnante impari a fare questo per non compromettere il successo dell’iniziativa e quindi la riuscita del Progetto. Un altro insegnante del modulo potrà, invece, fare da osservatore-supervisore. Prenderà nota di tutto quello che accade negli incontri, non dovrà intervenire per non confondere gli alunni ed evidenzierà, in forma scritta, il comportamento dei singoli alunni.

I-IV incontro

I primi quattro incontri hanno come tema la relazione di coppia. Alla fine dei quattro incontri tutti i bambini devono aver giocato con tutti, in coppia appunto. Solo nel caso di numero dispari un gruppo giocherà in tre. Durante l’incontro ci saranno fasi di gioco libero della durata di 5/10 minuti, alternate a fasi in cui i bambini si siedono in cerchio per terra, e in silenzio, rispettando alcune regole come quella di mettersi in cerchio seduti per terra, nel minor tempo possibile e in assoluto silenzio. L’animatore del gruppo porterà i bambini a riflettere su quello che si è fatto con domande del tipo: tu con chi giocavi? Che giochi avete fatto? Ti è piaciuto giocare con il tuo compagno? E altre domande sempre relative a quello che si è appena fatto. Anche quelli che non si sono scelti o che hanno qualche difficoltà a giocare insieme, alla fine dovranno per forza di cose giocare. Per questo l’animatore introdurrà gradualmente delle regole del tipo «le coppie che hanno già giocato insieme non potranno più farlo».

V-VIII incontro

Sono stati dedicati alla relazione in sottogruppo, vale a dire in tre o quattro bambini. Giocare insieme era il contenuto dell’esperienza. Le unità di gioco libero duravano 15 minuti, le discussioni in cerchio 10 minuti.
L’obiettivo era quello di stimolare ad apprendere le modalità della relazione in sottogruppo, a saperle verbalizzare in riferimento al «decidere» e al «fare» insieme agli altri.

IX-XI incontro

Questi tre incontri sono stati dedicati alla gestione del conflitto e dell’aggressività attraverso la comunicazione e l’ascolto dell’altro. Si è divisa la classe in due gruppi: i maschi e le femmine. Una squadra ha giocato e l’altra ha osservato, a turno. Ogni squadra aveva il compito di fare il massimo di giochi possibili in dieci minuti, facendo partecipare tutti nessuno escluso. Quando tutte e due le squadre hanno concluso si è aperta la discussione sull’attribuzione dei punteggi. Poiché, a turno, una squadra aveva osservato, si è potuta rilevare la capacità di porre attenzione sugli avvenimenti.

 XII incontro

L’incontro finale è stato dedicato allo sviluppo del sentire il gruppo come appartenenza. In un’ora bisognava giocare tutti insieme nessuno escluso, facendo il maggior numero di giochi. Il conduttore, in questo caso anche arbitro, doveva attribuire un massimo di 100 punti per ogni gioco. Per stimolare si poneva il raggiungimento di 2200 punti come record da battere. L’obiettivo era allenare il bambino ad interagire in gruppo, affinando il suo ascolto, la sua comunicazione e le decisioni da prendere insieme.
Dopo ogni intervento in setting, una volta in classe, i bambini avevano il compito, prima di rientrare nel lavoro didattico convenzionale, di esprimere attraverso il disegno o parole o tutte e due le cose insieme, i propri stati d’animo e le sensazioni provate durante le fasi di gioco e di riflessione. E’ stato molto interessante, in sede di verifica, esaminare il materiale che nei dopo-incontri i bambini hanno prodotto.

Verifica e conclusioni

Gli insegnanti-conduttori che hanno partecipato al Progetto si sono riuniti, a scadenza mensile, per considerare e confrontare il clima complessivo dei gruppi-classe. In qualche caso, ad esempio, si sono dovuti ripetere alcuni incontri quando nel gruppo-classe non si era riusciti a fissare bene il concetto di rispetto delle regole o quando si era notata poca partecipazione nella fase della riflessione.
Alla fine della seconda fase del progetto è stato somministrato un sociogramma di uscita. I dati che sono venuti fuori ci hanno dato la certezza, nella maggioranza delle classi coinvolte, degli avvenuti cambiamenti. E’ stato fondamentale ed è stato il più grande indicatore del successo del Progetto, vedere uno sviluppo costante e marcato sia per quanto riguardava l’attenzione dei singoli alunni, sia le relazioni interpersonali e quindi il benessere generale della classe.
Il contatto relazionale in situazioni di gioco, il semplice toccarsi con le mani, la scelta del gioco insieme (i bambini erano liberi di scegliersi il gioco che preferivano) ha fatto dei miracoli. Si è cambiata la percezione che si aveva degli altri, si sono messe in moto dinamiche insospettate. Si sono visti bambini che non venivano scelti nei giochi, che restavano in piedi, in silenzio, attaccati al muro della palestra senza saper cosa fare perché tutti gli altri erano già impegnati. Poi, pian piano, hanno iniziato a sciogliersi anche loro, hanno cominciato a guardarsi, a toccarsi timidamente con le mani e finalmente a ridere e correre giocando.
Ad esempio, scoprire che Sara, rifiutata da tutti all’inizio degli incontri, come indicava il sociogramma e come si notava nella fase dei primi incontri, è poi stata scelta da una bambina della sua classe e da lì, come se si fosse sciolto un incantesimo e con un processo a catena anche gli altri bambini hanno cominciato a guardarla con occhi diversi, a giocarci, ed avere infine il riscontro del sociogramma che evidenziava come aumentavano i bambini che la sceglievano e diminuivano quelli che la rifiutavano, beh, è stata una bella soddisfazione.
Una considerazione finale. Il lavoro sull’attenzione e sul gruppo implica, più che in altri settori, lavorare sui sentimenti. Posto che non è facile, anche perché come insegnanti non siamo allenati a farlo, tornano in mente le indicazioni provocatorie, ma non tanto, di Cesare Scurati, quando dice che «le relazioni e le comunicazioni hanno la stessa importanza dei contenuti. E come s’insegna italiano, matematica, inglese, così sarebbe utile insegnare amore, odio, rivalità».


(Pubblicato, Scuola Italiana MODERNA, 15 febbraio 2000)

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